Le verità sono invisibili

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aprile 2005
Segno, anno xxxi – n. 264
Le verità sono invisibili – Milva Maria Cappellini

Qual è il contrario di instant-book? Forse well-pondered book, libro ben ponderato. Certo, un libro dovrebbe essere sempre, per definizione, meditato nella genesi e durevole nell’efficacia: lo pretenderebbe – anche senza chiamare in causa Derrida – la stessa persistenza del suo materiale, a prescindere dall’eventuale fugacità dell’argomento. Che il romanzo di Giampaolo Spinato Amici e nemici sia un libro tutt’altro che «istantaneo» lo mostra non solo il suo centro tematico – il sequesto e l’uccisione di Aldo Moro – ormai consegnato alla storia italiana benché tutt’altro che risolto, ma anche la sua relazione stretta con due romanzi precedenti dello stesso autore, Il cuore rovesciato (1999) e Di qua e di là dal cielo (2001). Chi articola strutture narrative di simile intensità solitamente non scrive libri avventati e d’occasione. Non sarà quindi inopportuno parlare di questo libro a un anno dalla sua uscita: il ritardo servirà anche a isolarlo da coevi altri lavori di scrittori italiani sui temi degli anni di piombo nonché da contemporanee letture cinematografiche.
Nel romanzo si intrecciano, con valore non solo funzionale bensì profondamente indiziale, quattro vicende, tra vero e verosimile: il calvario di Moro; il rapimento e la prigionia di un membro del commando brigatista (Sebastiano, nome di battaglia Leto) a opera di due neofascisti; il lavorìo del potere, manifesto e occulto; la vita quotidiana di un gruppo di liceali, tra cui Gianpaolo detto Telonius. La molteplicità di avvenimenti rappresenta in modo quasi materiale la complessità del reale, mentre allude alla sua indecifrabilità ; le storie che si incrociano mostrano coincidenze, sincronie, tangenze casuali, ma anche quanto c’è di inesorabile nelle implicazioni e nelle conseguenze di un evento. L’evoluzione delle vicende – emblematico lo sdoppiamento della storia di Moro in quella di Leto, rispecchiamento simultaneo ma con deformazioni e diffrazioni – evidenzia l’immanenza e l’insolubilità delle contraddizioni, le domande senza risposta (senza quelle «risposte pronte» che Telonius rifiuta), le discordanze stridenti.
Sul fondo della tragedia che ha spezzato in due la storia italiana del dopoguerra, due motivi mitici: l’uccisione del padre, che emerge nel «sacrificio» compiuto di fronte allo sbigottito Telonius da Sebastiano ragazzo, a espiazione del peccato che oscura la sua nascita; il mito della rinascita primaverile, che affiora nell’amore tra Telonius e Irene, con «la voglia, l’ansia e quella vita che nonostante tutto già sbocciava».
La compresenza di punti di visti diversi non significa neutralità – né adesione a estetiche «deboli». Al contrario, nel romanzo si tende una trama di idee forti e nette: ogni morte inflitta si ritorce sull’assassino e lo uccide; la scelta di morte (la soglia dell’inferno di cui parla il rapitore di Leto) è sempre perdente, anche sul piano politico, perché irrigidisce l’avversario e nutre quella controparte che si voleva abbattere. Al centro, il tema del male e dei mali che da esso senza sosta si generano, con volti diversi e ambigui: male come scelta senza sbocco; male pervasivo e disponibile a essere istituzionalizzato, come nella macchinazione della politica che si snoda biforcuta; male vischioso e contagioso, come nelle tribolazioni di Sebastiano. Il male indecifrabile e indicibile, ma che si deve pure tentare di decifrare e di dire, poiché – come intuisce Telonius – la possibilità esiste, come esistono, sempre, l’incoerenza e il dubbio. E’ questione di cercare «altre parole», ammettendo anche il rischio di non trovarle. Questione di raccontare quello che ancora non è raccontabile, svelare i discorsi che mistificano la verità, come nelle tirate parlamentari e nelle frasi di circostanza, che la coprono e la congelano, come nel lago gelato falsa tomba di Moro, che la pervertono e la brutalizzano, come nei discorsi dei carcerieri a Leto. La sfida è portare a chiarezza i discorsi che, invece, esplorano e indagano la verità fino a mettere a nudo il suo nocciolo, perfino quando «Il reale, che ci sta davanti agli occhi, è il più inservibile degli elementi».
Come si assume – a rappresentare la complessità – pluralità di trame e molteplicità dei punti di vista, così si sceglie nello stile la plurivocità e perfino la dissonanza: la struttura offre spazio a generi e stili e modi narrativi diversi, a vari ritmi di sintassi e di parola (un esempio per tutti, il sapiente ralenti> della scena che precede il rapimento di via Fani) in cui si alternano sequenze narrative e recitativi, mimesi di testi pragmatici e indiretto libero, didascalie e andamenti poetici (per esempio, endecasillabi e ottonari dissimulati nel testo). Conta certo, in questo, l’esperienza teatrale dell’autore, che incide anche nella cadenza di tragedia della vicenda di Moro, la cui solitudine è proprio quella di un eroe tragico, vittima sacrificale serrata «in una capsula di tempo smisurato».
A contrastare il caos, nella disseminazione di fatti e pensieri, una struttura narrativa solida, che si traduce nell’ordinata organizzazione del testo in capitoli e macrocapitoli, indizio di una tensione instancabile a comprendere e sistematizzare. La stessa tensione che anima, nonostante tutto, il gioco «costruttivo» del ragazzino Sebastiano (raccontato in una pagina che è dello Spinato migliore, quello che sa recuperare uno sguardo bambino e serissimo sul mondo) che, nel ricordo di Telonius, «dava a tutti un nome nuovo» e non si stancava di inventare mondi. Sebastiano, del resto, nella sua scelta mette in conto sì la morte, «Ma non il niente di una pena senza scopo». Il fatto è che «tutte le sospensioni e i vuoti […] non possono restare tali, siamo portati a strutturarli», come siamo portati a inseguire il significato, la verità : «E si potrebbe continuare. Ma la verità non è la soluzione in fondo a un giallo, come piacerebbe a tutti, e quasi mai sta scritta sui verbali. Come stupirsi se le verità restano invisibili».

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