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ART. 1. – Letteratura e “tempo presente”

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Alla domanda più pressante, ma non dichiarata, che ispirava l’allarme lanciato da Mauro Covacich, si potrebbe rispondere, con vergognosa approssimazione, facendo un appello: qualcuno può fargli pervenire un elenco di pizzerie alternative a quelle che frequenta?


La consulenza potrebbe sortire esiti non trascurabili quali: a. assicurare alle riflessioni postprandiali la qualità dei cibi ingeriti; b. curarne il metabolismo prima di fargli prendere la strada dei giornali. (1)

A scanso di equivoci, dirò subito che non c’è ombra di sarcasmo in questa premessa che prende di petto, e senza eluderlo, uno dei tanti problemi evocati, nel merito ma anche nella forma, dalla polemica sviluppata da quell’articolo.


Spiace per Covacich, cui oltre alla dritta sulla pizzeria invio pubblici ringraziamenti per avermi indirettamente convinto, con quel pezzo e in veste di polemista, a intervenire sull’argomento. Che abbia toppato di brutto l’hanno già dimostrato, con vari argomenti, altre persone. (2)

Per rimanere nel merito ortolano della questione [dubito che questo sia il merito, ma consideriamolo tale, per ora], ovvero le presunte discrepanze sull’asse scrittori-opere-omissioni [dove per omissioni s’intende la discrepanza abissale, nelle opere, degli autori – che non saprebbero spremere la realtà – dal presente], aggiungerei solo qualche nota.

Su quale bizzarra visione si fonda l’idea che, in assenza di kamikaze e guerre e ketchup e unabomber e irene pivetti e primi ministri esibizionisti, disprezzati da piccoli, una letteratura non sia a contatto con la realtà?

Da quello che ho letto – e dall’elenco proposto – la realtà che la nostra letteratura sarebbe incapace di rappresentare non contempla, che ne so, frustrazione euforia inadeguatezza esaltazione disincanto illusione rabbia e quant’altro non faccia notizia pur facendo quotidiana compagnia agli individui o alle comunità nelle relazioni fra loro e con i micro e macroscopici accadimenti del mondo reale, vicino o lontano che sia.

Macché. Fantasie riflessioni emozioni di tutti noi, tabaccai, giocatori del lotto, innamorati, malati, lavoratori qualunque – e l’elenco dei romanzieri in pectore potrebbe continuare – non sono la realtà, né il presente. Figuriamoci: la realtà è un elenco di aberrazioni o guinness dei primati che sta sui giornali, alla radio o in televisione.

Ora.Occorre un q.i. smisurato per capire che, con queste premesse, si finisce nel nonsense?

Anche senza vertiginosi, decrepiti arnesi [il dio delle lettere stramaledica Baudrillard & Company insieme a più irraggiungibili vertici, Beckett Joyce Borges, per dirne alcuni, colpevoli dei loro traguardi ma anche degli sfracelli compiuti dai loro epigoni], non ci vuol tanto a smontare questa mistificazione.


Siamo così sicuri che la realtà sia quella rappresentata dai media? (3)

E poi. Davvero uno dei temi salienti sullo stato della nostra letteratura è che gli scrittori non sanno adeguarsi all’agenda proposta dai media o dalle statistiche? E, anche ammesso che sia, voglio dire: c’è ancora spazio per altro, per esplorare il vissuto, ad esempio, e non solo l’aneddoto? O crediamo davvero che quello che per i sondaggi e per l’auditel non ha valore apprezzabile sia insignificante, qualsiasi sia la forma espressiva (individuale, magari anche originale, si spera) in cui si manifesta?

Che alla Legge di M. – di cui dico più avanti – sia davvero riuscita la magia perpetrata proprio attraverso quell’equivoco osceno, totalmente sbilanciato sui rapporti di forza e potere, che è la realtà rappresentata ogni giorno dai media? Davvero per noi il presente è quello certificato dalla sua apparizione in quelle rappresentazioni? O non è proprio il reale quello che questa mistificazione pretende di nascondere e seppellire?

Dice: stiamo parlando di priorità , rilevanza, emblematicità degli argomenti, delle figure e dei fatti trattati: ma, a distanza di anni (e di fallimenti, di lacerazioni, di morti…) è davvero impossibile ipotizzare un’idea meno demente di quella che, attraverso separazioni schematiche e rassicuranti fra pubblico e privato, un tempo dettava aberranti criteri di priorità e di urgenza?

Gli scrittori e le opere. E una rappresentazione in cui microscopici abitanti il tuorlo di un uovo siano costretti a migrare nelle trombe di falloppio di una cernia, ha qualcosa a che fare, secondo quella tesi, con il reale, o manca il figlio disadattato che fa biro biro?

Che fine farebbero, sempre secondo questo criterio, la Tempesta o il Racconto d’Inverno, due sperimentazioncine da brivido dello Scuotipera ormai vecchio, e Alice nel paese delle meraviglie o qualsiasi altra favola degna di questo nome? L’inattualità di certa letteratura è davvero avulsa dal suo/nostro presente?

Si capisce qualcosa di più di una guerra, anche di quella in Iraq, nel dettaglio, leggendo Lilli Gruber o l’Iliade?

Ah, ma è vero. Qui si parla di letteratura. E per giunta italiana.

E allora. Qualcuno ha da dirci qualcosa di meno umorale, qualcosa che non soprassieda sugli oggetti evocati (i libri, i testi, le storie) per dare voce a malesseri, umori, che poi sono il pane di tutti, scrittori e lettori, ma quando pensi che un libro fa schifo mica ti compri una skorpion e fai fuori l’autore come fanno certi interventi, sia pure con grande mestiere e in modo figurato, s’intende, il che, per le implicazioni del loro discorso, è anche peggio? [Così come, quando ti imbatti in qualcosa di significativo o di bello, non è obbligatorio, per dirlo, istruire un processo di beatificazione].

Sarà vero che per dire qualcosa di significativo sull’Inter non è necessario andare allo stadio [basta fissare Moratti in televisione; e se lo dice un tifoso di questo squadrone…] Ma sfogliare anche un album di figurine, magari aggiornato, non fa mica male.

E, va be’, non facciamo l’appello, non pretendiamo di essere sempre esaurienti, ma perché insufflare in alcuni lettori l’equazione polemica=promozione? [Sospetto che non condivido, sia chiaro, ma certe asserzioni un po’ sbrigative non fanno nulla per non suggerirlo].

Ma cosa importa. Qui si racconta la favola della bella letteratura che beve la birretta. Tanto il ricambio non manca: dopo schiere di comici-kleenex, ora tocca alle altre categorie del terziario avanzato. Scrittori, polemizzate.

Come? di Cosa? Dite, dite, non sottilizzate.

Soprattutto, niente domande sugli argomenti a seguire:

  • Morto e sepolto l’Olimpo, l’èlite dei salotti [ma, sarà vero?], libero accesso nel bel mondo del libro [uh-uh, perché suona falso?]. Perché domandarsi se con l’acqua sporca s’è buttato il bambino e la Legge di M. ha ridotto al suo minimo storico, quasi spazzato ogni illusione di costruire, seguire percorsi come [forse, ma forse, nella mitologia editoriale] facevano un tempo signori del calibro di Vittorini o Calvino con gente che il Marketing avrebbe strozzato con le sue proprie mani?

  • Perché mai domandarsi – ad esempio – dove siano finiti autori per un effimero arco di tempo presenti [e spesso esaltati] e ora scomparsi dopo essere stati sfruttati? Tutti morti? Alle Maldive, appagati? E’ l’apparire e sparire così fisiologico, o c’è altro, magari un clima un po’ pesantuccio?

  • Cosa diciamo di certi [molti di più di quel che siamo disposti ad ammettere stando soltanto agli schemi delle “guerre per bande”] operatori eruditi, di editor fra i più preparati che (con)vivono sempre più spesso con la pistola del Marketing puntata alla tempia? Se ne parla? Mangiamo una pizza? Che, senza exploit, dentifrici in brossura, un percorso, una voce, in Italia, o si adegua o si prende i suoi rischi, tra cui qualche volta l’esser defunta (o, caso per caso, snobbabile, non notiziabile) per la famosa realtà rappresentata dai media che, a quanto pare, ha problemi più rilevanti in agenda?

  • Per non parlare – ma trattasi qui di un eccesso di raffinatezza – dell’idea sbrindulina, cincirischina, ma tanto carina, per cui il bello, per essere tale, debba permetterci di riconoscerci. Nei romanzi, nelle canzoni, in televisione, dovunque. Un mondo di specchi. Ecco individuato un settore in cui è conveniente investire.

Ma mettiamo da parte le inezie. Sorvoliamo sulla fragranza di birra e 4 formaggi che emana da un’impostazione così semplicistica. Soprassediamo, per gentilezza, sulla sineddoche avventurosa per cui i miei amici scrittori diventano gli scrittori italiani [e nessuno dei nominati ha mai niente da dire in queste occasioni sull’immagine da Compagni di merende che ne viene alla letteratura da questa garrula impostazione: che se ne dica bene o male, vedere in elenco il tuo nome è garanzia che si esiste] e, di conseguenza, la puttanata bestiale: “Perché gli scrittori sono più intelligenti delle loro opere?” [spesso è vero il contrario e potrebbe essere il caso proprio del polemista Covacich], su cui fondare dubbi così dilanianti.


Sarà vero che gli accorati allarmi e le provocazioni lanciate negli ultimi tempi non sono paragonabili a quelle degli indimenticati predecessori che si affacciavano dagli stessi pulpiti. Sarà vero che questi interventi più che il fiato hanno il rantolo del medium di cui assecondano l’affannato sforzo di arginare l’emorragia di lettori coprendo [termine giornalistico rivelatorio] la realtà e tappando altri buchi con effimere discettazioni. Ma è altrettanto assodato che questi interventi un pregio ce l’hanno, ed è strettamente riconducibile alla Legge di M. di cui ecco svelato l’arcano:

Banalizzare.

Non intendo cadere nella trappola che sto tentando, male, di mettere a fuoco. Mi sono soffermato fin qui su un intervento preciso proprio perché sono convinto che si debba distinguere caso per caso. Ma nel gioco perverso della polemica a colpi di clava, dell’arroganza assertiva e della risposta vittimistica che rincara l’aggressività messa in scena [entrambi gli atteggiamenti mi paiono indifferenti ai contenuti proposti e soprattutto al confronto], intravedo un grave rischio. Quello della sterilità .

Sulla china di variazioni ben più coreografiche, assumendo fattezze di vacui isterismi o artifici retorici smaccatamente pretestuosi, queste provocazioni, rischiano di disinnescare le stesse urgenze che, eventualmente, le hanno, in nuce, dettate. Di esaurirne il potenziale discorso in un pio-pio (o bau-bau) tautologico – neanche più tanto divertente, mancando sempre più spesso di ironia – che racconta una resa davanti all’occupazione dello spazio (presunto, fittizio o sincero, il giudizio è affidato a ciascuno) destinato al dibattito pubblico sulla letteratura da parte della totemica Legge di M. (oltre al Marketing individuale o d’impresa, la consonante suggerisce abbinamenti a piacere…) e dei suoi mirabili, riciclati corollari:

  • elevare a opinioni autorevoli o autorizzate clichè e stereotipi condivisi o esperiti da tutti
  • cavalcare tutto ciò che fa moda, ricicciando ad uso dei media cosette magari già elaborate da gente più modestamente dentro le cose ma, come fonti, taciute
  • farlo con diligenza, mestiere e obbedienza, travestendo un vizio antichissimo da rivelazione divina o nuova tendenza
  • sforzarsi di rappresentare con l’efficacia fittizia ma persuasiva della Prima Persona Espansa una quota sufficiente dell’Analfabetismo di ritorno [spacciato per semplificazione], di Narcisismo [come leva soggettiva e oggettiva, necessaria al Mercato], con quel pizzico di Tafazzi-retorica che fa tanto paraculo, ma funziona.

Mi piacerebbe poter liquidare questo travestimento di un vizio antichissimo, questa recita [nei discorsi pubblici, non nelle opere] dei ruoli via via più gettonati e richiesti fra le varianti dei trasgressori e dei provocatori, con qualche ironia. Ma l’assuefazione a questa meccanica dell’assertività apodittica, dello spararla più forte degli altri, in uno sterile gioco al massacro che non contempla dialogo, ci sta apparecchiando una forma di rinuncia che, sarò ingenuo, va, a mio parere, denunciata e arginata.

Si può capire che un redattore si adegui alla Legge di M. perché “mi dà il pane…”. Ma da uno scrittore, quando gli è dato lo spazio per dire, è legittimo attendersi che provi a metterlo in discussione con un pensiero, uno solo, uno suo, che si possa dir tale, invece di assecondare, nei contenuti e nel tono, quel sottile disprezzo che la provocazione, per costituzione (e preciso scopo del committente?), diffonde su ciò (e su chi) vuol farci intendere di voler discettare.

E’ davvero impossibile oggi – mi chiedo – tradurre in certe cornici pubbliche passioni e/o disagi senza fare del proprio piccolo mondo il paradigma di tutto? E’ così difficile immaginare intelligenze impegnate a parlarsi [dire e ascoltare, non solo reagire o asserire] invece che affannate ad affermarsi?

Volendo, non c’è limite al peggio, ed è possibile perdere anche quest’occasione. Basta appunto obbedire alla Legge di M. Sapendo però di assecondare la surrettizia richiesta di addomesticamento che regola, di questi tempi, il pubblico mercato dell’opinione, che gongola per il chiasso, fottendosene dei contenuti. Ma un contributo alla sua affermazione (o alla sua crisi) gli viene anche dalla disposizione di chi offre e di chi vende. Quindi da chi vi partecipa, in qualsiasi veste.

Oltre tutto, per tornare al tema da cui sono partito, per una volta che, a quanto pare – da ciò che si produce o si nasconde, dalle esperienze, le mobilitazioni e i confronti pubblici sempre più numerosi fra autori lettori spettatori che, se si guarda oltre il proprio cortile, in teatro, ad esempio, si diffondono e crescono – per una volta che, forse, è la famosa realtà a non stare del tutto dietro allo scrivere, potrebbe essere interessante non perderla, questa occasione.

Perché non proviamo davvero, una volta, sconosciuti o amici, a parlarne? Sui più fronti delle scritture, da qualche parte, con tutte le figure coinvolte. Certo, sperando che nei dintorni si trovino pizze come si deve, (dice Totti) è normale…

gps

(04.03.04)


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note:


(1) [Il mio contributo si chiama, manco a dirlo, Bella Napoli, e sta a Milano, in zona Lambrate: nonostante non spicchi per originalità, almeno nel nome, garantisco sull’offerta di pizze, tra cui quella ai porcini, che rimane un must].


(2) Fra le varie risposte di cui sono venuto a conoscenza e che ho letto, quella di Carla Benedetti dimostra anche ai più recalcitranti come sia possibile conciliare complessità e profondità con la sintesi e il tono divulgativo richiesto dal medium [inciso: mai mangiata una pizza con lei, non ci conosciamo]. Di Giulio Mozzi, cui è bastato un succinto e parziale elenco di titoli e autori (nelle pagine del suo diario on line) per mettere in luce indirettamente la sentenziosità disinformata dell’articolo da cui tutto e partito, mi è piaciuto il tentativo di rimettere in circolo il concetto di mito [con lui ho mangiato un panino al bar nel 1996, da allora nessun contatto anche se, com’è ovvio, ne seguo a distanza il percorso]. Giuseppe Genna, che ha la stimolante spudoratezza di spalancare il proprio personale laboratorio pre e para-narrativo su I Miserabili (http://www.miserabili.com/), ha accennato a una categoria, il tempo dilatato, che meriterebbe approfondimento [mai mangiato insieme, ma non mi dispiacerebbe scambiare quattro chiacchiere e altrettanti, composti ruttini con lui]. Mentre Lello Voce [del quale ho soltanto l’assenso all’invio di newsletter; di pizze, ovviamente, non se ne può parlare…*], parlando della necessità di una verifica dei poteri, e in particolare di quelli politici e linguistici – che mi pare contengano gli altri – mette il dito su ciò che sta dietro il discorso pubblico sulla letteratura e il frequente, plateale scarto fra i contenuti apparenti e i suoi scopi, le sue strategie o, semplicemente, la sua reale utilità .

  • [Tutti gli incisi sono ludicamente sintonizzati sulla diffusa abitudine ombelicale di riconoscere o ignorare l’altro secondo criteri di opportunismo e convenienza].


(3) Basta parlare con un redattore per intuire come, al di là dei della registrazione dei fatti eclatanti e dell’attuale, irrisolta illusione pluralistico-liberal-democraticistica dei singoli e dei gruppi, per la famosa Legge di M. – di cui dico più avanti – l’informazione nasconde il reale che dice di volere mostrare.

Esempio. Oggi c’è sciopero. Traffico. Titolo: La città è un puttanaio. La laureanda di turno, incaricata dal caposervizio, galoppa, va in strada, registra, contro le aspettative, che tutto funziona e lo scrive. Ma il capo le intima: “Cazzo dici, riscrivilo e mettici dentro il casino, sei stata nel posto sbagliato”.

Questo in piccolo. Ma su scala più vasta. Il crollo delle Torri Gemelle, l’11 Settembre fatidico. Qualcuno sa dirci qualcosa su cosa è successo, chi è stato, perché, come e da dove è venuto? Qualcosa che non sia così vago e, come s’è visto, necessario a giustificare le strategie militari e le guerre decise subito dopo?

Tutto ciò non per gettare discredito su una categoria che, come ogni altra, per la famosa Legge di M., sta sviluppando quell’allarmante psicosomatica in cui, per il pane, l’individuo, volente o nolente, è costretto a accettare di essere solo ingranaggio. [E non sembra esserci neanche un vaccino: la Legge di M. ci ha apparecchiato davvero un destino becero e baro se, dovunque ti volti, non c’è nessuno che non si lamenti della siderale, assillante distanza fra sé, i suoi sentimenti e progetti, e i ruoli per cui siamo pagati].

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Tutti i link sul web agli interventi e agli autori citati:

  • Mauro Covacich: il suo articolo, apparso sull’Espresso del 15 gennaio;

  • Giulio Mozzi: è intervenuto più volte e ha raccolto sul suo blog (post del 24 febbraio) un’utile sequenza di link;

  • Carla Benedetti: anche il suo articolo è stato pubblicato dall’Espresso;

  • Giuseppe Genna: anche lui è intervenuto sul tema;

  • Lello Voce: qui.

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