scrivere al tempo del web
- gerghi e radici
- radici e significati
- dietro le mode
- lo spazio invisibile
- scrivere al tempo del web
- dal supporto all’applicativo
- un’esperienza personale
- il tramonto della dialettica duale
- il Log Semantico
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Gerghi e Radici: il Log
Tra i tecnicismi, più o meno felici, che imbastardiscono la lingua, la parola Log, e la sua radice di origine greca (Logos > Parola, ma anche Rivelazione, Ragione, Intelligenza, etc.), raccontano la densità e la potenza di un “sapere” ancestrale, ancora capace di inseminare il linguaggio, spiccandone senso mai effimero, a dispetto sia delle degenerazioni sclerotico-ciniche che delle tentazioni senescenti e adolescenziali alle quali indulgiamo, per pigrizia o per moda, con gusto onanistico dello “spreco di seme”, di senso.
Un esempio per tutti: la parola Blog.
Neologismo tra i più gettonati dello slang internettiano delle ultime stagioni, Blog è un tipico derivato in forma vaga di crasi che unisce in un’unico termine il sintagma “Web Log”.
Log è radice d’uso frequente e ordinaria nel gergo e negli specialismi linguistici di tipo informatico che, con buona pace dei puristi, come tutte le varianti sistemiche e fisiologiche degli alfabeti, non nascono dal nulla e si nutrono di tradizioni e ceppi linguistici originari, metabolizzandoli.
Senza avventurarsi in noiosi specialismi, chiunque abbia qualche confidenza col fenomeno delle chat sa, o dovrebbe sapere, ad esempio, che esistono degli automatismi (interni al proprio pc o al server a cui si è collegati) che permettono di loggare ciò che si scrive
nelle query o “finestre private”. Esistono cioè dei file che registrano e conservano, documentandoli, i dati, e quindi anche i dialoghi e le conversazioni che, per la logica binaria e i codici di interfaccia che governano lo scambio di informazioni fra macchine, non sono nient’altro che composizioni alfabetiche traducibili in serie numeriche misurabili, quantificabili, e stockabili a piacere.
Provate a fare una semplice ricerca di file e cartelle sul vostro pc compilando qualsiasi campo (nome o contenuto) con “log”, e dallo sterminato elenco di file che compariranno fra i risultati ricaverete la prova tangibile dell’importanza di questa radice, peraltro mai inflazionata o usurata nonostante l’incredibile varietà della sua giustapposizione (come prefisso, desinenza, estensione di file, etc…) all’interno dei singoli termini o accanto a questi.
In senso lato, si possono chiamare Log molte altre funzioni in uso sul web, non ultimi gli Stats, i contatori di visitatori o di clic sempre più diffusi, i quali non fanno altro che “tracciare” i movimenti di navigazione delle macchine di cui ci serviamo, o i cookies, sul cui uso (ed abuso) si è più recentemente sviluppato tutto un sapere applicativo difensivo.
Vanno moltiplicandosi infatti i software per individuare e cancellare i file-log pubblicitari che si insinuano maliziosamente nei sistemi per studiare i comportamenti dei navigatori trasformandoli in masse segmentate e ordinate di dati da rivendere su quello che ormai pare essere il Mercato dei mercati: il marketing.
E anche se, come nel vecchio e sottile distinguo fra guardie e ladri, già a proposito delle epidemie informatiche più di una volta abbiamo avuto il sospetto che dietro la proliferazione e la diffusione costante dei virus vi possano essere proprio le case di produzione di anti-virus (è un fatto che i migliori hacker spesso finiscano per ravvedersi davanti a congrui contratti di industrie dedite ad attività legali), la nuova offerta di ad-aware e spy-ware eliminator ci permette, di fatto, per ora, finalmente, di integrare il residuo libero arbitrio qua e là ancora possibile on line. Ad esempio nei programmi per chattare, quando si adopera l'”opzione” che permette di loggare o no le proprie conversazioni, quindi di scegliere.
Radici e Significati
L’uso invasivo, gergale e specialistico, della radice Log e il suo comportamento linguistico raccontano però soprattutto alcune qualità e conseguenti potenzialità forse non ancora del tutto esplorate.
Intanto, sulla scorta dell’impalpabile ma agguerritissima battaglia di disciplinamento che si gioca dietro la favola del web come spazio di libertà uno spontaneo rigurgito di autonomizzazione individuale ha dato vita a un fenomeno diventato poi moda. Il Blog, appunto.
Con diseguale onestà e lucidità, in molti si sono esercitati e si esercitano su questo fenomeno. Per approfondirlo invito a farsi una congrua webbibliografia (per rimanere in tema di imbastardimenti e, a seconda dei gusti, di orrori o piacevolezze linguistiche) cliccando la fatidica parola su qualsiasi motore di ricerca. Quello che a me qui interessa notare è l’istanza sottesa nella diffusione del fenomeno. La sua sottile tensione tra innovazione e resistenza. L’assalto gioioso e/o disincantato portato a uno spazio utopisticamente pensato come vergine e proprio.
Esiste, all’origine di questo exploit e del suo movimento di riappropriazione, prima e durante il suo manifestarsi come moda, una forma di precisione chirurgica, una potenziale capacità di rioccupazione e manipolazione di uno spazio virtuale (il Web) sempre più conteso, colonizzato e quindi disciplinato da funzioni soggette esclusivamente a rapporti di forza economici.
Il blogger, comunque la si pensi, nella sua natura aurorale, è un protagonista, uno che sceglie, che c’è. Potenzialmente.
Uno che si riprende uno spazio per farlo proprio e per condividerlo. Tanto che, anche nel nome, appunto, aderendo alla vecchia e vertiginosa pratica abbreviativa del gergo informatico, punta alla radice: al Logos. Si riappropria dei codici di comportamento e comunicazione inscritti nel sistema di navigazione (presenza, contatto, segno, interazione) resettandoli all’interno di un vocabolario in cui la Parola torna al suo ruolo preminente.
Basta navigare la più parte dei blog per osservare come il Logos prevalga. Come anche ogni altro codice, ogni altra sintassi o alfabeto di segni e di suoni (dall’immagine foto-video-grafica alla musica) ritrovino nel transitorio ma unanimemente accettato sfondo delle parole la cornice più naturale per essere descritti, discussi, verificati, citati, compresi. O addirittura come, anche quando l’immagine o il suono ritornano in primo piano, proprio lo sfondo-cornice delle parole (si pensi soltanto alla codificazione in linguaggio html che origina la visualizzazione delle pagine) rende possibili le loro specificità o proiezioni non verbali, persino le loro contaminazioni.
Questa disposizione, questa scelta, ha di per sè un accento di radicalità dirompente. Impone, in qualche modo, una priorità del contenuto sulla sua forma. Sveste a priori (quasi completamente) l’apparato formale di ogni ipnotico travestimento (quanto web, nel suo catatonico asservimento alla cultura del chewing-gum per gli occhi, assomiglia alla televisione?) vincolando le parole ai sensi, ai significati.
Potenzialmente.
Autentico.
Potenzialmente “nuovo”.
Dietro le mode
Potenzialmente perché una cosa è la spinta, l’insorgere e il primo dispiegarsi di un’istanza, e un’altra è, evidentemente, il suo dilagare, l’affermazione di massa, con tutta la varietà di implicazioni via via suscitate, le modificazioni sollecitate, insomma i contraccolpi subiti dalla spinta aurorale, persino quelli a lei meno pertinenti che possono stratificarne significati e funzioni ma anche, talvolta, comprometterne l’istanza di partenza, perfino azzerarla.
Lo scossone esercitato da questo sguardo e questo gesto, la moltiplicazione anche in termini numerici significativi, di blog informativi alternativi e/o diari personali on line, la varietà delle sue applicazioni è tuttora e sarà oggetto di modificazioni, chiacchiere (siamo nell’epoca del tautologico, del ridondante), studi (si spera), ma anche di nuove “colonizzazioni”.
Qualsiasi parere possiamo avere sui fenomeni e le mode, però, spesso queste manifestazioni raccontano bisogni. Sarebbe troppo sbrigativo e poco lungimirante liquidare l’evento (ricordiamoci che stiamo parlando di un fenomeno quasi di massa) col classico snobismo intellettuale di chi lo denigra, di solito perché non lo capisce o non lo conosce, anche se fa intendere il contrario, o semplicemente perché non ne è protagonista.
Diversi sono gli accenti e le anime che orientano il fenomeno dei blog e non pretendo qui di catalogarle. Ma se tralasciamo la necessità e l’urgenza di informazione reale in un sistema informativo che nega ciò che promette (cfr. La guerra comincia dalla menzogna), mi pare che anche la versione più squisitamente diaristica, probabilmente la più diffusa e condivisa, quella che per modi e regole d’uso largamente impiegate ne alimenta anche strutturalmente la dilagante familiarizzazione (si pensi all’abitudine di “linkarsi” tra blog), racconti in qualche modo la necessità di continuare a inventarsi dei luoghi in cui poter essere, esserci e riconoscersi.
Lo spazio invisibile
Questo è il punto. Non è cosa (o esigenza, diritto, desiderio) da poco. Tratto ontologico, statuto implicito dell’essere, inclinazione inscritta geneticamente: essere, esserci, riconoscersi. Sì ma: dove? Sul Web. In uno spazio incorporeo, immateriale. Un luogo, uno spazio, un gorgo e un ingorgo il cui patto partecipativo è l’assenza, diventa palcoscenico della propria presenza.
Ed è qui, nel paradosso descritto da questa dinamica, che è possibile cogliere il tratto complesso, di possibilità e di illusione, che fa della rete, e delle sue possibilità non del tutto ancora esplorate, una delle metafore-luogo, uno spazio immaginativo non più, o non solo, fantasticabile, pensabile, ma finalmente abitabile.
L’invisibile come spazio disponibile, agibile, altro non è che il limpido, consapevole riconoscimento dell’immateriale (fantasia, sogno, desiderio, pensiero…) come luogo concreto. Luogo in cui, come nell’altro, esistiamo. Un’idea che, da un certo punto di vista, potrebbe anche fare paura alla logica ferrea del marketing il cui ultimo spazio di colonizzazione e di assedio, non a caso, si inscrive nell’invisibile del desiderio (inventato, manipolato, innescato), del bisogno (suggerito).
D’altra parte, risolversi a usare questo invisibile proprio per essere è disposizione che festeggia una volta per tutte la fine della bidimensione duale (del pro e del contro, del torto e della ragione, della dialettica) per restituirci alla leggerezza profonda dell’esistenza, quando torna a comporsi in un unico, mutevole, dinamico insieme di corpo e di mente, la cui terzietà generata è detto individuo, persona.
Non manca qui certo materia per la filosofia, la teologia, la fenomenologia dell’onirico, la metempsicosi, la psicoterapia, anche, se proprio vogliamo: cercarsi dove non c’è nessuno, sicuri di trovarsi: lui, noi, la molteplicità delle parti che ci costituiscono e interagiscono, la pluralità delle identità, il loro generativo e dialogante differenziarsi ma anche, a volte, l’indifferenziato nessuno, abitante di un non-luogo, evocato proprio dalla molteplicità indistinta, da precari equilibri di aspettativa e bisogno.
Questo significa, in fondo, voler esserci, riconoscersi (e cercarsi, cercare: sè, l’altro, gli altri) in uno spazio virtuale che, va detto, per l’assenza del corpo può rendere possibile ciò che in presenza dei corpi non lo è. E va tenuto sempre presente che questa possibilità è anche il suo limite. Che questa esperienza, esasperando per contraccolpi, delusioni o euforie, la scissione tra corporeo e incorporeo, ne descrive la complessità .
Nell’ampia forbice tra illusione, visione, bisogno, si insinuano molte possibilità . Non ultima quella di identificare le profonde ragioni emotive che alimentano la passione per l’immateriale. Gli stati reali della mancanza. Le radici, i grovigli dell’incognita e l’illusione di controllo sulle proprie emozioni restituita talvolta dalla coazione a ripetere che, attraverso l’incanto e la vertigine ipnotica, suggestiva della tecnologia, riversa nell’immateriale energie disponibili, provenienti da urgenze e bisogni che, per essere davvero compresi e, a seconda dei casi, soddisfatti trasformati o compiuti, meriterebbero altre e meno aleatorie destinazioni, cornici di investimento e di elaborazione meno illusorie.
Questa esperienza, per altri versi, ci riavvicina, senza più moralismi, alla consapevolezza della necessità di uno stato integrale in cui l’invisibile, l’immateriale, e soprattutto l’emozione, ritrovino il necessario spazio-tempo di trasfigurazione della realtà. In un permanente dialogo che consenta la metamorfosi, la crescita delle parti, la comprensione, la modificazione e, a volte, anche solo la sopportazione.
Qui, in questo vivido scambio, tutti i riverberi affettivi (in uno spettro che, dal dolore alla gioia, comprenda tutte le proporzioni e le proposizioni del sentimento), desideri e bisogni possono risultare finalmente più contenibili, conoscibili e tollerabili prima di essere agiti, contro la logica dominante che, per farci ottimi consumatori, concepisce solo desideri che esistono per essere soddisfatti, mai osservati, conosciuti e compresi.
Che c’è di male in questa ricerca? Com’è possibile sottovalutarla o svalutarla con sbrigative sentenze? Perché disprezzare ciò che attrae? E’ possibile riuscire a distinguere il senso specifico di un “movimento”, una “tensione”, una “trance” collettiva, se vogliamo, una spinta dai modi complessi (intelligenti o irritanti, lucidi o modalioli, etc.) dal suo dispiegarsi?
Scrivere al tempo del Web
L’esplosione di questo desiderio (esserci) e la sua riproducibilità tecnica a costo (quasi) zero coincidono con il recupero di un gesto: la scrittura. Se quel desiderio motiva il fenomeno e la sua irriducibilità planetaria, lo scrivere dispiega, in termini agibili e concreti, la sua fattibilità .
La scrittura, cioè, costituisce (e restituisce) cornice, materia, dimensione e dinamica a un luogo-non-luogo profondamente agognato, ne accoglie con generosa capienza l’aspirazione, la spinta che orienta e che spiega, prima delle mode e dei modi, l’ossessione e l’urgenza che generano questo bisogno.
La scrittura, il suo gesto, la proprietà agile e manipolativa degli alfabeti che abbiamo a disposizione, della lingua intesa come Logos, parola, senso, prima che si faccia (o senza preoccuparsi del suo farsi) forma. La scrittura e la lingua, scabre, senza sovrastrutture, intese come spazio di rappresentazione dove l’invisibile in cui, a dispetto di ogni totalitarismo Economico, ancora, indubitabilmente, viviamo, può prendere forma.
Questo mi pare significativo nel nuovo uso del Web introdotto dall’avvento del Blog. Insieme con lo spalancarsi di alcuni orizzonti di genere e pieghe diverse – come sempre integranti aspetti felici e sinistri, possibilità, novità e fraintendimenti – e che meriterebbero riflessioni aggiuntive.
Dal supporto all’applicativo
Proprio osservando i modi di questo scrivere (i Blog), il formulario ricorrente e lo standard applicativo che, salvo minime varianti, impagina, al di là, delle singolarità confessate in ogni singolo spazio, queste scritture, scopriamo, ad esempio, che la scrittura non è affatto quel gesto “sublime”, “neutro”, a priori “nobile”, “bello”, “utile”, “interessante”.
Con buona pace degli apocalittici integrati (nuova, anzi vecchia genia in cui gli opposti, vicendevolmente sorretti dalle proprie ideologiche tesi, si equivalgono) di turno, scopriamo che strutturalmente i dispositivi utilizzati dal blogger, non solo ordinano, ma possono disciplinare quella scrittura, cioè addomesticarla o disinnescarla, a seconda dei punti di vista.
Questo accade naturalmente, in apparenza, in ossequio all’ortodossia del politically correct (l’ultimo travestimento dell’intolleranza e del totalitarismo), e cioè salvando l’illusione democraticistica e vile, tipica dell’utopia della cultura di massa, di essere scrittori (o simili) solo perché si scrive, e ciò che ne esce ha visibilità pubblica.
Personalmente non sono affatto convinto dell’attendibilità e della fondatezza di tesi così stravaganti. Non mi associo all’adolescenziale e imprudente euforia con cui, in buona o in cattiva fede, molti descrivono un fenomeno come rivoluzionario, affrettandosi a trarre effimeri auspici basandosi quasi esclusivamente sulla portata numerica del suo potenziale.
L’appiattimento dell’analisi sulla misurazione quantitativa (statistica) di un fenomeno è una tentazione in cui, dal ’68 in poi, nella spasmodica ricerca dell’alternativa alla Legge Universale del Capitale, è caduta una genia di nuovi filosofi, precipitati nel baratro del fallimento, insieme con gli oggetti delle loro esaltazioni (mode, modi, tendenze) e quel che rimane della loro brillante letteratura su di essi.
No. Qui è lo scarto qualitativo. La misura individuale e relazionale spalancata nella frattura sapida e non catalogabile dei comportamenti. E’ l’aperta discrepanza con gli standard che si increspa confusamente, ma dinamicamente, nell’uso acerbo di un media non del tutto ancora disciplinato e controllato. Questi mi paiono i segni, le tracce segnate o prefigurate di questa nuova scrittura, questo stare nel Web, che peraltro sa abilmente sottrarsi alla quantificazione statistica attraverso l’ironia e la bugia.
Non c’è più statistica, potenzialmente, non c’è matematica, operazione numerica, sondaggio che tenga. Ed è al nucleo in fusione di questo fenomeno, alla sua strettissima implicazione con la scrittura, appunto, che bisogna guardare, per osservarne gli spazi di emancipazione o gli accerchiamenti, le strategie che, ancora una volta, procedono a un tentativo di disciplinamento.
Scrivere, dunque. Sì, ma come, cosa, perché. So, per esperienza, che si può scrivere anche per non dire, non voler vedere, nascondersi quello che (ci) si dice di voler cercare, mostrare, descrivere, smascherare. Anche per questo, tra i diversi “campi di battaglia” offerti dal gesto della scrittura, da diversi anni trovo che quello dei supporti per l’elaborazione e la fruizione dei testi, costituisca un terreno cruciale per la difesa della libertà e dell’autenticità di quel gesto.
Un’esperienza personale
Il linguaggio è gratis. E tale deve rimanere, a mio parere. Per questo, avventurandomi nel gorgo informatico, esplorandone spazi e alfabeti, mi sono sempre ripromesso di non pagare, nella misura del possibile, gli strumenti applicativi (software, guide, etc.) anche per contrastare l’ennesima “cartolarizzazione” dell’esistente a scopo di profitto, concentrato nelle mani di pochi.
Così come l’aria (dico, l’aria) è diventata merce di scambio (frequenze televisive, radiofoniche; ma anche percentuali di ossido di carbonio o di azoto scambiati, a suon di vaucher turistici, con la purezza dell’aria nelle località di vacanza, etc.), anche il linguaggio, la sua disponibilità nella cornice dei software per la scrittura, è pensato, strutturato e venduto sfruttando l’appeal intrinseco della sua gratuità e presunta libertà.
Eppure solo diffidando dei software per la scrittura, dei loro dizionarietti compìti e cretini, dei loro conteggi, delle loro superlative ed esilaranti correzioni sintattiche e grammaticali (posso permettermi di denigrarli perché li conosco, ne ho studiati diversi nei minimi particolari per servirmene) si può riuscire a servirsene.
Credo che il software in quanto strumento debba appunto servirmi e non viceversa. Non debba e non possa, quindi, oltre una certa soglia, orientare la scrittura, setacciarne contenuti modi e forme con l’enciclopedia superflua delle opzioni. Pena (o forse meta preordinata) lo smidollamento della scrittura, il suo snaturamento.
Per scrivere queste pagine, per esempio (il sito, il Log e tutti i singoli testi) mi sono dotato nel tempo, attraverso lunghe ricerche – perché com’è noto la libertà si paga e non coincide con quella promessa nei codici a barre – di più software (variabilità, sottrarsi al disciplinamento, al canone), gratuito o, come si dice in gergo, zanzato, il più possibile lontano dagli standard stereotipati e persino violenti che incasellano e ordinano in date e spazi di singhiozzo residuale le scritture vendute come libere negli applicativi offerti gratis sul web.
Anche lo spazio-blog, regalato (bugia) dai provider o da alcuni servizi in una cornice di richiami e obblighi pubblicitari, lede nell’intimo il senso di autonomia, di ricerca, di responsabilità, e persino di ludico implicito nella scrittura, inscrivendolo nel totem che governa il Mercato: l’equivalenza semantica di tutto con tutto: principio caro alla televisione (e a qualche semiotico un tempo furbetto e ora integrato) dove un dentifricio è appunto equivalente alla benedizione del Papa, una notizia alla sua parodia, un discorso al suo esatto contrario.
Certo, questa ricerca, e questa vigilanza costa fatica. Ma proprio qui risiede il gusto, inteso come senso, modo di assaporare, ma anche come godimento o parto estetico esclusivo, il gusto, dicevo, della vita. Le ideologie prima o poi crollano, dentro o fuori di noi. Prima o poi, ciascuno si accorge che fatica, in questo senso, è parola, e disposizione, di ben altro significato e riscontro, rispetto all’idea, prevalente, di volerne/poterne fare a meno.
Il tramonto della dialettica duale
Questa attenzione, questa cura per l’applicativo e il supporto, cioè per tutto ciò che serve a dare forma e sostanza all’alfabeto, paradossalmente, è direttamente proporzionale alla produzione di senso. Non la proprietà del mezzo di comunicazione, ma la cognizione del suo funzionamento e il suo consapevole uso garantiscono la libertà e l’originalità della rappresentazione (storia, racconto, testimonianza o quant’altro) prodotta con un alfabeto.
Il vecchio, decrepito dualismo tra forma e contenuto, con tutta la zavorra delle sue ermeneutiche e delle sue aporie, è diventato arnese da rottamare. L’istanza che riunisce queste due parti della scrittura (bidimensionalmente pensata), il propulsore dinamico che coniuga le funzioni e ne completa l’aspetto nella sua integralità, gravita nell’area sindacabile, soggettiva, personalissima e generatrice della consapevolezza e del governo (niente a che fare con il controllo) degli strumenti in questione.
Quando sono in grado di decidere gli ordini e la clausole dinamiche, le cornici che accoglieranno i miei testi; quando mi adopero per disinnescare nella misura del possibile ogni impedimento, ogni disciplinamento della libertà e delle trasformazioni; quando riesco a piegare il supporto e il dispositivo ai miei argomenti e ai miei sensi, non adattandomi ne formalmente ne contenutisticamente a formule preconfezionate, già dato; allora, e solo allora posso assaporare una soglia vertiginosa ma concreta di libertà in cui, attraverso i miei testi, attraversandoli o essendone attraversato, posso essere quello che sono.
Non era l’essere, l’esserci, si diceva, l’istanza che spinge, nel dispiegarsi euforico e, a tratti inebriante, di quella moda (i Blog), verso l’affermazione autonoma del Sè attraverso la scrittura? Eccoci dunque serviti. Ecco descritta, in un’approssimazione nient’affatto definitiva, come si vede, e in una proiezione prospettica che non esaurisce mai la ricerca dell’io, l’identità che c’è, che vuole essere e che, come si sa e si spera, non potrà dirsi mai appagata o esaurita fino all’unica fine di sostanza davvero decisiva e ineluttabile: la morte.
A meno di non voler giustificare l’uso omologato e di massa degli applicativi on line (per i blog e per gli altri sistemi di ordinamento di comunicazioni e dati), con la compìta divisione di interventi e post per date, e lo stucchevole ordinamento dei commenti (ovvero la vecchia prigione dei numeri e delle statistiche travestita da libertà di espressione); a meno che non si voglia giustificare l’uso e la diffusione di questi dispositivi come strumenti che soddisfino un bisogno di riconoscimento (altra leva profonda delle mode), dobbiamo credere che la scrittura sia altro.
Dobbiamo poter pensare che, come luogo di ritrovamento non riducibile o codificabile, se non in via del tutto provvisoria, lo scrivere, nella sua natura più semplice e primordiale, come possibilità di contatto con l’invisibile attraverso un alfabeto, come specificazione e palcoscenico transitorio ma efficace della mobilità invisibile ma concreta dei significati, lo scrivere si sottrae per definizione alla rassicurazione del catalogo, alla grevità delle sistematizzazioni, siano esse critiche o, come in questo caso, appunto, strumentali.
Da questa intrinseca anarchia, da questa irriducibilità, sia pure vissuta come orizzonte, come tensione o solo come potenzialità del gesto, si riconosce e garantisce, almeno nell’autenticità del suo farsi, se non nei risultati o nei raggiungimenti (questi, a differenza della spinta originaria, nient’affatto alla portata democraticistica di tutti); da queste tracce, questi segni, dicevo, si riconoscono, anche in un alveo comunicativo non esente dallo stereotipo (ricordiamoci che una scrittura originale può nascondersi nello stereotipo, per parodiarlo, a volte; o semplicemente perché non ha mezzi per sottrarvisi), il Sè di chi scrive, quindi la sua originalità contenutistica e formale.
Il Log Semantico (o Open Writing Project)
Quali applicazioni, quali scenari ci suggeriscono queste suggestioni sulla natura del rapporto tra scrittura e web?
Esistono aspetti, spazi o zone franche ancora non del tutto esplorate nell’intrinseco legame tra la rete e l’energico rifluire dei suoi utilizzatori verso la pluralità ma anche la leggerezza e l’immediatezza degli alfabeti, del Logos su cui, inequivocabilmente, si strutturano tutti i nodi che la costituiscono?
Ho l’impressione che la dinamica intrinseca all’uso del web, e l’aspirazione cui ho fatto cenno, quel cercarsi, il perdersi per ritrovarsi (in senso metaforico e con più di un’allusione al principio modernista messo in luce per la prima volta da Baudelaire, e poi ripreso da Simmel, Banjamin e Kracauer, con il concetto flânerie) e l’intrinseca attitudine a diventare in prima persona autori della rete, tutto ciò, dicevo, può esercitare il fascino di una promessa.
Nelle qualità che identificano il rapporto tra scrittura e web (metamorfosi e mobilità su tutte) sembrano convergere in doppio aspetto, di illusione e di reale, concreta possibilità, tutti i fantasmi rincorsi in millenni di alfabetizzazione, riassumibili nella possibilità della scrittura, della combinazione alfanumerica in tutte le sue più libere e inventive trasfigurazioni, di contattare e cogliere, dandogli veste visibile e concreta, ciò che per sua natura è e rimane invisibile, i significati e il loro fitto, sottostante incrocio di collegamenti, unioni e contraddizioni, in particolare con il mondo emotivo degli affetti.
Una possibilità la cui realizzazione è, come si sa, costantemente rimandata, procrastinata non tanto (o non solo) dall’inadeguatezza dei vocabolari, dai loro limiti, di volta in volta (o di caso in caso) esperiti, ma dalla stessa, intima natura dello spazio immateriale a cui la scrittura si sforza di dare corpo: la sua perpetua mobilità, il comportamento irrriducibilmente vivo e organico degli oggetti che abitano lo spazio sensibile del senso, oggetti a cui la scrittura, anche nella sua più spregiudicata manifestazione, non può che alludere, esaurendosi, in disarmo, o viceversa, rigenerandosi e ricominciando a tendere verso una nuova soglia di conoscenza ogni volta che le sia data percezione di averne posseduta/attraversata quella che, prima di averne fatta esperienza, intimamente supponeva essere l’ultima.
Ma proprio le due qualità che segnano, visibilmente, lo scrivere del e sul web, e cioè il suo procedere metamorfico (nell’aspetto come nel contenuto), la sua inesausta mobilità (a cavallo tra stato ansiogeno e, anche nel travestimento più allegro, inquieta e mai appagata, ricerca di ridefinizione), ci mettono davanti agli occhi, forse per la prima volta, in una forma appunto concretistica, fruibile, quelle che sono le qualità dell’invisibile a cui la scrittura aspira.
Per la prima volta, cioè, un supporto per la scrittura porta manifestamente a epifania quello che probabilmente, nel contempo, è il senso profondo dei possibili legami fra le parole e i significati, e le dinamiche di questo rapporto. La scrittura per il web non solo allude a questo paesaggio sospeso da sempre tra l’onirico e il metafisico, ma lo mostra, lo rende palpabile nel suo stesso dispiegarsi e si nutre, per i suoi stessi procedimenti sintattici e alfanumerici, di quella natura, innerva scelte e accostamenti di codici, linguaggi, parole, di tutto il potenziale metamorfico e dinamico di cui sono costituite.
Dopo il dominio del segno, della scienza dei segni e del suo rassicurante e protervo convincimento di controllo, questo è il regno del senso. L’èra in cui il significato, sprecato, avvilito e stuprato dai feticismi accademici, si prende una definitiva rivincita sulle parassitarie e funebri esercitazioni sui suoi comportamenti e sulla sua im-materia esibita come su un tavolo da obitorio. Nuova frontiera, o nuova illusione, sulla falsariga degli innumerevoli travestimenti dei traguardi via via raggiunti e procrastinati dall’evoluzione dell’uso dei linguaggi, questa pare essere la qualità specifica della nuova relazione, lo spazio esplorativo spalancato (ma non ancora del tutto conosciuto e sfruttato) dalla scrittura al tempo del web.
Ecco perché ho chiamato questo spazio, e il complesso diversificato di tutte le sue manifestazioni, dalla semplice catalogazione di dati alle aree più ludiche o sperimentali, Log Semantico. Perché, per la prima volta uno strumento, un supporto visibile e fruibile sembra offrirci la possibilità di rendere immediatamente percepibili proprio quelli che sono i movimenti e le stratificazioni dei testi e della lingua, permettendoci di “osservare”, o forse illudendoci di riuscire a osservare, o ancora riuscendo tendenzialmente a rendere osservabili finalmente le loro dinamiche e modificazioni.
Parlo naturalmente delle trasformazioni della scrittura (in senso anche lato), sia nella sua veste formale (polarità o aspetto permanentemente cangiante nelle pratiche condivise del Web) che nella relazione e nel congiungimento coi significati (che comprende anche l’allontanamento da questi, la loro smentita e distorsione, o il fraintendimento degli stessi).
Illusione o no, questa possibilità e questo comportamento, al di là dei modelli recenti e già stereotipati nella manipolazione del mezzo (vale a dire i procedimenti schematici o compulsivi suggeriti da un’ingegneria del software che dietro lo sfoggio di opzioni infinite esercita forme costrittive del tutto incompatibili con la tanto sbandierata libertà e “velocità ” di espressione), questa “natura” trasparente e metamorfica mi pare essere la variante speciale e autenticamente sperimentale offerta alla scrittura e alla ricerca dal Web.
Una scrittura consapevole della propria organicità . Un alfabeto che sa sottrarsi, per la sua intrinseca mobilità, alle vampirizzazioni ermeneutiche. Che non si presta all’arroganza definitiva e sentenziosa dell’interpretazione. Che, nel contattare, via via più precisamente, fantasiosamente, creativamente, allegramente, dolorosamente, l’impalpabile battaglia dei significati nell’invisibile, sa concepirsi, svilupparsi, esaurirsi. Sa generarsi, crescere, morire e rigenerarsi.
Una scrittura che persino del suo farsi sa manifestamente far tesoro, valorizzandone modificazioni, densità, voci, stili, varietà. Recuperando, al contrario di quanto vuol farci credere la mistificatoria campagna del “digito ergo sum”, lo spazio e il tempo nutriente della riflessione, della pazienza, della progettualità . E anche tutto il faticoso, ma impagabile lavoro che permette fisiologicamente la crescita, la maturazione dei testi, e quindi anche delle storie, al di là del genere di appartenenza o catalogazione.
Non più quindi un luogo in cui riversare dati, modalità che delle modificazioni introdotte dalla tecnologia comprende solo la traduzione coatta di archivi da contenitori a contenitori, con l’unico, esile e illusorio convincimento che siano più capienti, di mettersi al passo con i tempi, modernizzare strutture di marketing, acquisire nuovi mercati, usando uno strumento nuovo con gli stessi criteri precedentemente applicati ad altri supporti, sottostimandone perciò, per miopia, le reali potenzialità .
Ma un Progetto di Scrittura Aperto (Open Writing Project). Una scrittura che, scegliendo di mostrarsi in trasparenza anche attraverso il suo farsi, racconta la propria ricerca. Respirando, muovendosi, anche fisicamente, visibilmente sotto i nostri occhi. Raccontando in translucida e fruibile sintesi le contraddizioni, i lampi e le opacità dei propri flussi. Una scrittura che, così facendo, senza vergogna, usa finalmente uno strumento, una possibilità, per quella che è. E, così facendo, reimpari a nutrire il proprio progetto delle sorprese stupefacenti che ora anche il mezzo (come da sempre i significati via via avvicinati, evocati) possono restituirle, riorientando strada facendo, il suo lavoro, il suo dispiegarsi.
(29.05.03-01.08.03)