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Piaccia o non piaccia, Silvio Berlusconi è il nostro ritratto. Dalla brama dell’accaparramento di danaro all’ostentazione di vera o presunta potenza sessuale. Dalla smania di possesso all’ansia narcisistica di riconoscimento che proiettiamo in quel frenetico consumo delle relazioni che è diventato l’avere a che fare con l’altro. Dalla disperata paura di morire esorcizzata nell’insaziabile richiesta di consenso – scambiato per amore – all’ossessiva ricerca di conferme della nostra stessa esistenza. Berlusconi è il Paese. Rappresenta con precisione vertiginosa i fragili ma imperanti dogmi imposti dalla retorica del benessere a cui tutti anelano, e le deviazioni, l’oblio etico, le aspettative più inconfessabili e recondite che quel tacito patto sociale condiviso si porta dietro. La veemenza di molti suoi avversari conferma l’intima rassomiglianza tra loro e la tragicomica icona che dicono (presumono) di combattere. L’odio, l’ostilità, più della rassegnazione, sono la prova della compromissione con l’inesausta brama che la stessa biografia dell’Imprenditore-Premier riassume con l’intensità epica dei capolavori letterari unita ai tempi comici della pochade o della farsa. Egli cadrà. Ogni sforzo per comprarsi l’immortalità – lo sforzo strenuo e compulsivo di chi attinge alle stanze del potere senza il Magistero per esercitarlo – sarà stato vano. Ma cosa c’è dopo/senza di lui? Cosa scopriremo dietro la cartapecora liftata di quella maschera funeraria da clown – attenzione, un clown egoico, ingordo, pronto a sbranare chi ne viola l’integrità sovrana, come nel più orrido degli horror e dei totalitarismi – cosa pullula sotto quella maschera penosa? Il rischio, forse l’auspicabile catarsi è che, cadendo, la maschera ci mostri quello che ha nascosto fino ad ora: il purulento, colpevole verminaio che l’ha generata.

Decenni di sovranità limitata non sono bastati al Paese per concepire un riscatto, uno sguardo altro. Ai ricatti che, dal secondo dopoguerra fino alla caduta del Muro di Berlino, hanno tenuto sotto scacco l’Italia, illudendo intere generazioni che hanno pagato anche col sangue la finzione, si è sostituito da due decenni un incantesimo di Democrazia dove, con l’interessata collaborazione delle opposizioni, i rapporti di forza fra le fazioni in lotta stuprano quotidianamnete sogni, bisogni, significati. Dove le passioni civili – nell’epoca dell’apoteosi retorica del civile, in letteratura, in teatro, nella società – si esercitano solo nella forma iconoclasta della colonscopia sondaggistica del consumatore, nel calcolo dei consensi, nella visceralità frustrata evacuata nel web, in guerre per bande, conflitti d’interesse, culti contrapposti della personalità . Anni passati, dalla moltitudine che aspira a qualcosa di diverso, a firmare salvacondotti, appelli per i Saviano, i Santoro, i Fabio Fazio di turno, in una delirante rincorsa di brand e icone alternative ma speculari all’arroganza di chi si avversa. Urla, rituali che perpetuano l’incantesimo invece di sfatarlo. Modi per sprofondare nel baratro invece di risalirne. Per alleggerirsi la coscienza nel migliore dei casi. Quando occorre una minorenne magrebina per scalzare un Premier la democrazia non è in pericolo, è in putrefazione. Non va difesa, ma reinventata. Se, nell’indifferenza complice di chi in apparenza vi si oppone, chi ha più danaro e potere può irrompere nel teatro della democrazia e insidiare i contrappesi disegnati dalla Costituzione, c’è davvero da riscrivere una storia dall’inizio.

Parliamo di meritocrazia. E per pigrizia o catatonia conviviamo da decenni con l’antimeritocrazia e la medievale distribuzione di privilegi. Di diritti. Ma se uno sciopero ci lascia a piedi inveiamo e non sappiamo riconoscere cosa ci lega gli uni agli altri, quale che sia il mestiere facciamo, a qualsiasi ceto sociale apparteniamo. Parliamo di informazione. E non ci scandalizza che le notizie siano dettate dai concessionari pubblicitari. Quanto tempo dovrà passare perché torniamo ad avere rispetto per noi stessi? Perché i nostri bisogni tornino al centro della nostra stessa attenzione? Il nostro destino può dipendere dalle prestazioni priapiche di un uomo? Dalla menzogna e dall’ego ipertrofico di chi, grazie alla lottizzazione, ha occupato la televisione pubblica da anni e ora, per difendere posizioni di rendita, invoca autonomia? Almeno nel simbolico si torni alla furia iconoclasta e si violino le icone e il loro ottuso culto. I comici, più o meno avvinazzati, tornino a farci ridere, invece di pontificare. Le star televisive – conduttori, autori di scaffali di pubblicità che chiamano programmi – non si rivolgano al popolo per difendere le loro posizioni di rendita e si ricordino quello che sono: parassiti. I Santoro facciano quello che sanno fare bene. Informazione. Lascino perdere l’avanspettacolo, Gaber e certe esibizioni muscolari che li apparentano all’icona contro cui si scagliano. Il valore di una trasmissione, di un libro, un’opinione, un film, di una persona, non sta nel numero delle persone che la guardano, lo leggono, la condividono, la votano. In tempi di afasia, quando si affida al bottoncino Like l’illusione della democrazia, è bene ricordarlo.

Giampaolo Spinato

Su alcuni degli argomenti qui trattati vedi anche:
> Sovranità limitata (LINUS, gennaio 2010)
> Nomen Omen (LINUS, ottobre 2009)
> La posta in gioco (LINUS, agosto 2009)

Pubblicato su Satisfiction


About Giampaolo Spinato

(Milano, 1960) ha pubblicato Pony Express (Einaudi, 1995), Il cuore rovesciato (Mondadori, Premio Selezione Campiello 1999), Di qua e di là dal cielo (Mondadori, 2001), Amici e nemici (Fazi, 2004), La vita nuova (Baldini Castoldi Dalai, 2008). Scrittore, giornalista freelance e docente universitario, scrive per il teatro e ha fondato Bartleby – Pratiche della Scrittura e della Lettura.

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