Di qua e di là dal cielo: romanzoWorldCat•LibraryThing•Google Books•BookFinder
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"E' perché vuoi farti amare
che ti affascina morire..."
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Il Magico Albino
Tiri in porta
Per tutto il mondo per tutto l’universo per tutto il Braun...
Il ragazzo guardava la porta sul muro con un solo pensiero.
Col piede colpire il pallone, da sotto, per dargli l’effetto, e con un pallonetto perfetto spedirlo preciso nell’angolino.
Per tutto il mondo, per tutto l’universo, per tutto il Braun.
Mirò bene all’incrocio, fissando il rettangolo rosso.
Per tutto il mondo, per tutto l’universo, per tutto il Braun!, disse ancora, per l’ultima volta, d’un fiato.
Uno scatto, la gamba all’indietro, poi il tiro, deciso.
Il pallone di cuoio si impennò verso il cielo.
All’inizio sembrava fuori bersaglio, sembrava che andasse a finire oltre il muro, sul tetto della fabbrica dietro, ma all’improvviso lo vide salire e curvare, più lento, nel punto più alto.
Seguiva la sua traiettoria col fiato sospeso.
Ecco adesso era immobile, fermo.
Forse stavolta era andata, forse era stato preciso con quel pallonetto, forse tra poco sarebbe davvero finito all’incrocio, dove c’erano ancora le impronte dei tiri del Magico Albino.
Proprio lì lui l’aveva incontrato anni fa, un pomeriggio, che giocava a centrare la porta dipinta sul muro. Era estate, di luglio, a quell’ora che il sole scendeva e l’ombra del muro tagliava di sbieco il campetto. L’aveva intravisto che correva e tirava la palla in mezzo alla polvere fine che lo nascondeva e si era fermato a guardarlo, là in fondo, con la tuta, le maniche lunghe, nonostante quel caldo, una fascia intorno alla fronte e le calze sulle caviglie.
Era piccolo, magro, di tre anni più grande. Lui sapeva che non era normale e che solo da quando giocava a pallone gli avevano dato quel nome. Per i gol, la bravura, i suoi colpi di tacco, avevano smesso di prenderlo in giro. Nessuno faceva più caso ai capelli già bianchi, alla pelle arrossata, così pallida da fare paura, allo sguardo di fuoco, le iridi chiare nascoste negli occhi infossati, infiammati, tra le palpebre schiuse.
Già da quando giocava sui prati c’era chi litigava o barava per averlo nella sua squadra; anche i grandi, che giocavano già nei tornei e si credevano Riva, Altafini o Anastasi, quando mandavano via tutti gli altri per gli allenamenti, gli dicevano sempre di rimanere a giocare la partitella finale.
Lui li aveva sentiti parlare una volta che erano tutti sfiniti e sudati vicino alle borse, un giorno che il Magico Albino era rimasto e qualcuno gli aveva chiesto:
Cosa vuoi fare da grande?
Non lo so, gli aveva risposto davanti agli altri in mutande.
Ma come, non vuoi continuare a giocare?
Sì, ma non sono sicuro...
Il padrone della nostra squadra vuol fare un vivaio, perché non vai a fare il provino, se un domani ti vede giocare qualcuno che conta ti porta in una squadra importante...
Qualcuno sorrise, grattandosi in mezzo alle gambe:
See, magari nell’Inter, gli disse.
Alla fine il Magico Albino era andato davvero al provino e non c’era voluto poi molto a capire cos’era capace di fare. Anche il suo allenatore era quasi geloso di quel ragazzino, così taciturno e un po’ gracilino. All’inizio lo prestava malvolentieri ai più grandi che lo volevano già in prima squadra, ma siccome ogni volta che entrava segnava, col tempo dovette lasciarlo giocare una volta per tutte con loro.
Quando il ragazzo aveva scoperto che si allenava ogni sera da solo davanti al suo muro, il Magico Albino era già il centravanti più forte del circondario. Casa, chiesa, oratorio, a scuola ci andava perché si doveva, ma si sapeva che dopo le medie sarebbe partito. Da Milano, Varese, Torino persino, emissari di squadre importanti si contendevano il suo cartellino, tutti aspettavano solo che lui fosse pronto a partire, dire addio al suo paese, a suo padre e sua madre. Si parlava di cifre astronomiche, forse milioni. Ma lui aveva soltanto undici anni a quel tempo, lui giocava, sudava, con la sua calzamaglia scattava, dribblava, quasi sempre segnava, anche se da vicino faceva paura, si spalmava la faccia di crema che, col sudore, colava.
Forse pensava a quel giorno che l’avrebbe portato lontano, a studiare e allenarsi in collegio, con altri ragazzi, i più fortunati, quelli scelti qua e là fin da piccoli per farsi le ossa e diventare grandi campioni. E magari avrebbe potuto mandare anche a casa dei soldi. Non tanto all’inizio, perché già gli pagavano il vitto e l’alloggio, ma un domani avrebbe pensato lui a tutto, ai genitori e ai fratelli, coi milioni di un vero stipendio. Intanto continuava a allenarsi contro il suo muro, e da quel giorno, per tutta l’estate e l’inverno, il ragazzo era tornato a spiarlo per imparare a rifare quel pallonetto perfetto.
Finché una sera che ormai si sapeva che l’affare era fatto, il giorno dopo sarebbe partito, era rimasto fin quasi alle otto, quando il Magico Albino era uscito, e l’aveva seguito. Da domani mi prendo il suo posto, pensò, un po’ contento, un po’ dispiaciuto, quando si accorse che si era fermato.
Lo vide chiamare qualcuno in un bar lì vicino:
Vieni, dai, andiamo!
Parlava con uno, un signore che, appena lo vide, si sbracciò dietro il vetro.
Tonì, vien’accà!, gridò l’uomo che uscì barcollando.
Andiamo a casa, sentì che diceva il Magico Albino.
Esci dentro, jà, che brindiamo...
Lascia perdere, andiamo.
A quest’ora domani sei già in coppa al treno!
Non gridare, papà...
Ahe, neh, ma che è?, chitt’ammuò, continuò a dire l’uomo, appoggiandosi al muro: Mi credevo che eri contento... - a mio figlio l’ha comprato il grande Torino!
Uè, terone, cosa c’hai da gridare?, gli chiese qualcuno.
Intanto altra gente stava uscendo a vedere.
Avit’a schiattà tutt’e quante!, rispose, voltandosi verso di loro di scatto, barcollando e sputando, prima di cadere in ginocchio.
Va’ là che bel giro di valzer!, gli disse, ridendo, un signore.
Sì, vieni qua che ti pago da bere, aggiunse una voce.
Tutti scoppiarono a ridere mentre il Magico Albino aiutava suo padre. Il ragazzo, in disparte, lo vide girarsi a guardare la gente, prima di andarsene. E quegli occhi, la faccia. Una maschera fredda bucata da rosse fessure iniettate di sangue. Anche adesso che fissa il pallone, nell’ultimo istante, gli torna in mente.
Proprio adesso che era sicuro.
Quando ormai sta arrivando all’incrocio.
Ha sentito un brivido dentro, è rimasto lì fermo. Senza idea di quel fiato da dietro. Di quell’ombra che, in un batter di ciglia, lo supera, s’alza, e all’improvviso schiaccia la palla per terra di testa.
Ma co...?!, gli uscì detto vedendo il suo tiro interrotto.
Poi aveva guardato la sagoma chiara davanti alla porta.
Era spuntata nell’ultimo sole, di sbieco, dalla sua stessa ombra. Vide la fascia legata intorno alla testa, vide che se la sfilava. Gli sembrava. Sulla pelle pallida e chiara. Una vena.
Era un livido blu sulla tempia, pulsava.
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