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… il suo corpo si depositò, molle, contro lo
schienale. «Mi chiamo Giampaolo Spinato»,
mi disse, ripulendosi la fronte. Come poteva
pretendere che lo lasciassi andare?
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I.
Era l’inverno della grande nevicata, il ventiquattresimo e il più freddo di tutta la mia collezione. Le sciarpe erano dure come cartone, col pomo d’Adamo appeso al loro cappio ruvido anche deglutire era diventato pericoloso. Una cosa mai vista, ma ci adattammo. Una prerogativa di quegli anni, la capacità d’adattamento. Per conto mio, a quei tempi non sopportavo più quelli che menavano il torrone sui vent’anni. Il mio repertorio di frantumi aveva già una discreta consistenza. In più, non ci credevo ai reduci che spalmavano retorica sulle battaglie perse. Ci avevano lasciato in eredità illusioni troppo smorte per pasturare il loro disincanto. Ma di questo si occuperanno le puntuali analisi degli specialisti, a me basta l’accenno, per tracciare le coordinate, come dire, per prendere la mira. Non ho nostalgie e l’ho sempre fatta controvento. Cfr. avanti. Continua.
Mettiamola così: a quell’epoca volevo andare lontano. Non ero stato abituato a credere al futuro, ma la spinta a correre più in là, quella sì, era scritta nel codice genetico. Più tardi, quando riuscii a guardare con distacco i fatti di quell’inverno, mi convinsi, come si dice, che nel caso c’è spesso una necessità . Fosse per me, metterei molte cose tra parentesi – ecco quello che ho imparato – le parole non contano, finiscono dritte in un buco nero che sbadiglia sempre dalla fame. Bisognerebbe ridurgli la salivazione di tanto in tanto con qualche briciola di consapevolezza. I fatti. Ecco: il succo della storia è tutto lì. Non ha importanza sapere cosa sarebbe potuto accadere se non mi fossi comportato come ho fatto. E’ accaduto tutto grazie a un malinteso. O forse doveva semplicemente andare così. Non importa da che parte la si guardi.
Per un certo tempo chiusi tutti i ponti con il mondo. Mi tappai in casa e coltivai una serie di abitudini balorde. Questo, all’inizio, prima della telefonata. Ancora adesso non saprei spiegarmi come rotolai giù per quella china; a raccontarlo, mi sembra di parlare di un’altra persona. Poi successero altre cose strane. Mi misi a cercare un certo Delta Uno. Conobbi Jenny e abitai la sua baracca. Divenni amico di Karim e Ibrahima. Nel frattempo, scoprii chi fosse la persona che cercavo. Ma questo non semplificò le cose. Anzi. Vennero il quaderno nero, i messaggi e gli incontri di Pin. E c’erano di mezzo anche Cerata – Cerata o Macula, come si faceva chiamare – e Sara che, nonostante fosse cieca, ha saputo guardare dentro a quello che è successo meglio di chiunque altro. Prima, però, la corrente mi spinse letteralmente alla deriva. Il tutto senza mai oltrepassare i confini della città che mi ha ospitato come un bolo nel suo ventre molle.
Tornai a Milano nell’autunno dell’84 e, per cominciare, dovetti cercar casa. L’estate inglese mi aveva riossigenato a colpi di vero weather londinese. Dal negozio Benetton, che mi aveva permesso di installarmi là per qualche mese, avevo ereditato un po’ di cash e un discreto guardaroba – quest’ultimo all’insaputa di Mr Higgins, il titolare. Il trasloco mi tenne occupato in telefonate e appuntamenti per una settimana finché, con l’aiuto di un amico, trovai un certo signor Vergelio disposto ad affittarmi, dietro ragionevole cauzione, l’appartamento di via Paladini 16: un buco ammobiliato, affossato ai piedi di due enormi caseggiati che facevano ombra sulle finestre dell’ammezzato con le rughe dei loro terrazzini squallidi. Non potevo fare lo schizzinoso, avevo fretta e, quel che più conta, il nuovo padrone si dimostrò abbastanza comprensivo, accontentandosi della caparra, per cominciare. Brindai alla provvidenziale congiunzione astrale e trasferii tutte le mie cose nella nuova casa senza l’incubo di mensilità anticipate. Ma non era finita qui. Ripreso contatto con la Scuola d’Arte Drammatica, dove avevo appena terminato il terzo anno di regia, scoprii che le cose si erano messe male. Alla fine della primavera, l’assemblea degli insegnanti aveva espresso parere favorevole alla proposta di assumermi come assistente per il corso di recitazione. Una decisione con cui, a loro dire, erano stati premiati solo un paio degli allievi più «meritevoli» dell’ultimo decennio. A giugno, con il diploma in tasca e la testa sgombra da preoccupazioni, ero partito per Londra senza neppure lontanamente immaginare l’orizzonte sprangato che mi aspettava al mio ritorno. La novità non mi era stata notificata ufficialmente, ma neppure vi fu un cane che si prese la briga di avvisarmi. Per scendere dal pero dovetti attendere l’autunno. Intanto la stagione dei provini era finita e tutti i miei compagni di corso presto o tardi si erano piazzati. Io, invece, avevo cantato vittoria troppo presto. Con quella promessa in tasca ero stato felice di aver perso il treno. Niente stress, niente file, nessun monologo da recitare davanti al buio di un teatro vuoto, niente curriculum, niente foto, niente di niente. Tiè, invece.
Aprii con le mie stesse mani il rubinetto della doccia fredda telefonando a Pierre, uno degli insegnanti più giovani, col quale avevo condiviso memorabili slanci creativi e qualche stantuffata (prima io, poi lui, di fisso – beata ingenuità delle primine…) altrettanto memorabile, sempre col supporto alcolico del J&B. Pierre smorzò definitivamente il mio entusiasmo confermandomi quello che temevo. Si erano rimangiati la promessa, e la sentenza, a questo punto, era servita: niente lavoro, ero rimasto col culo per terra. Mi attendeva un altro, lungo tunnel nero, l’appendice di quella vita di espedienti e lavori precari che credevo di avere archiviato una volta per tutte. Mi ero fatto una certa esperienza sul campo da quando, per non vedermi ciondolare per casa con le mie fantasie inconcludenti, mio padre firmò l’assegno che mi garantì i tre mesi iniziali di affitto nella mia prima tana in Bande Nere, facendomi promettere che non avrei più rimesso piede in casa, non per viverci, almeno. Per mantenermi le lezioni che, tra recitazione canto mimo acrobatica voce danza trucco e storia del teatro, mi portavano via tutta la giornata, avevo sacrificato la notte a una miriade di occupazioni occasionali. Allora sottostavo alla dittatura dell’orgoglio con un compiacimento che aveva del patetico. Ma ritrovarmi davanti alla disgustosa prospettiva di inalare per quattro ore al giorno gli effluvi purulenti dei gemelli Wendy & Burghy solo per pagarmi la lavanderia che non riusciva mai a togliere completamente dalla biancheria l’odore d’olio fritto – per non parlare delle sghittate di ketchup – era piuttosto deprimente. Le alternative, se possibile, erano anche peggio. Di volantinare, adesso che avevo a disposizione tutta la giornata, non se ne parlava: scarpinare appendaun per la città, smanzando volantini a chili, nelle cassette delle lettere e, per sfregio, nei cestini dei rifiuti, fino a quando ti beccavano – no, grazie. Ai miei occhi, allora, la situazione aveva dei risvolti così tragici, che non sapevo cogliere spiragli nell’ombelico della galleria che stavo ormai per imboccare.
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