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16.01.1988
Avvenire
Paolo Crespi

TEATRO «Motoradiotaxi» al Litta, opera prima di Spinato,
affronta le difficoltà del rapporti umani nelle metropoli

Il «pony» diventa attore

Il rapporto fra un giovane e la telefonista della centrale, rappresentazione emblematica dell’incomunicabilità da stress

di Paolo Crespi

Caso forse unico a Milano di sfruttamento intensivo delle strutture di un teatro, il Litta programma in questi giorni ben due spettacoli, in fasce orarie diverse: mentre in sala continuano le repliche de «I nani burloni», con le marionette dei Colla, nel foyer, oscurato e provvisoriamente destituito della sua funzione di vestibolo, è iniziata lunedì sera – giorno tradizionalmente dedicato al riposo settimanale delle compagnie teatrali – la serie degli appuntamenti denominati «Punto di fuga» con i giovani di Futura Corporation: attori, registi, organizzatori, autori in senso lato di visioni teatrali, cui danno corpo con invidiabile tempestività, nelle sedi e nelle circostanze che il pingue ma avaro sistema teatrale milanese concede loro di quando in quando.

Nei primi tre giorni di questa e della prossima settimana è la volta di «Motoradiotaxi», opera prima di Giampaolo Spinato, autore e pubblicista, uno dei primi non attori ad aver sostenuto e condiviso l’esperienza di Futura Corporation, iniziata, ricordiamo, con la rassegna pilota «Vagiti e gemiti», andata in scena lo scorso mese di maggio.

Sullo sfondo delle corse e del travaglio metropolitano di una agenzia di «pony express», prende quota, astraendo via via dalla situazione reale, la love story di un lui (Pietro Farneti) e di una lei (Paola Salvi) che il destino colloca ai due estremi del servizio e di quella particolare comunicazione in codice che si propaga via radio nel cielo sempre più denso di messaggi della nostra città.
Delta Uno e la Centrale sono i loro nomi di battaglia e i soli che risuonano nelle conversazioni private che i due intrattengono nelle brevi e concitate pause del lavoro, tra una consegna e una chiamata e fuori orario nei primi approcci di una relazione che si rivela quasi subito più povera e difficile di quella, solo sognata ma psicologicamente importante, di cui la routine radiofonica era stata in un primo tempo complice e mezzana. Ora si frequentano e si amano, ma – coscienti o meno di essere lui il messaggero e lei la telefonista del lavoro diurno: nel testo permane l’ambiguità – è come se non si riconoscessero pienamente nel rapporto, se non riuscissero a trasferire nel vissuto sentimentale i desideri e gli affetti coltivati nell’altra dimensione.
E l’incomunicabilità tecnica, l’incapacità di saldare il cerchio tra fantasia, realtà e l’alone simbolico che la circonda, è alla base dell’ipotesi drammaturgica di Spinato che si riflette bene, pur con qualche sbavatura e ingenuità, nell’allestimento a tutto campo ideato dalla regista Cristina Pezzoli. Un corridoio centrale, tra due ali di spettatori accovacciati su una sorta di tribuna fatta di pneumatici sovrapposti, è indice, come l’asfalto che pavimenta la sala, della condizione incomoda e «stradale» di cui i protagonisti catapultano ogni giorno la loro esistenza.

A un’estremità troneggia la cabina di comando dell a centrale: «fili, tasti, video, microfono, on-off, una palla bucherellata per fare la voce di Dio.., ordini!», nell’alienazione linguistica della ragazza che vi lavora. Di fronte e alle spalle degli spettatori, i mille percorsi e le afasie della metropoli, per il messaggero Delta Uno e la sua moto (spenta), unica difesa e compagnia ad ogni interruzione di contatto con l’amataodiata Centrale.

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