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Lettera aperta a coloro che debuttano nella letteratura del terzo millennio (1)
A te che sei arrivato/a nel cuore nobile e dorato della letteratura, il romanzo, benvenuto/a. Possa tu realizzare il tuo sogno, qualunque esso sia. Sappi che quello che scrivi non ti appartiene. Osserva con attenzione la prigione che, dentro o fuori di esso, ti stai costruendo. Divertiti, godi, strepita, provoca, ridi, prega, implora, sonnecchia, gongolati, rilascia interviste, fai il/la Divo/a o lo/la sdegnato/a, fai un po’ quel che ti pare: non avrai scampo. Quello che hai scritto è già altrove. Se progetti di evadere da maschere, schemi e prigioni, scopri e indaga il rigore di tutte maschere, celle, etichette che ti andrà di abitare o in cui, te complice, verrai segregato/a. Tutto quello che dici su quello che scrivi potrà essere usato contro di te. Il fiato sprecato per spiegare quello che hai scritto non ti sarà restituito. Le parole che spendi per accompagnarlo e spiegarlo provano solo il suo fallimento, hanno il potere di renderlo vano, non aggiungono o tolgono nulla all’esperienza che hai fatto. Se l’hai fatta, lasciala andare, non ha bisogno di te, ogni altra opzione ne fa solo un aborto. I tuoi editori: non adularli, non farti adulare. Non difenderti, non aggredire, sii gaio/a. A ogni ortaggio, ogni freccia scoccata, sorridi e, se ti piace, schiamazza, ma vattene appena possibile. Se sei giovane, guardati dai vecchi. Sbranagli l’ala con cui fingono di tutelarti con l’unico scopo di perpetuare la miseria del loro piccolo o grande prestigio. Se sei giovane, ancora, dimentica di esserlo. Se non lo sei, di esserlo stato. Non ci sono più coetanei o coevi. Non hai età, non più anagrafe con cui farti scudo. Lo scrittore è titolo ambìto, il più usurpato dopo quello di Dio perché tutti, in potenza, lo sono. Chi non scrive una storia ogni giorno, chi non sogna di scriverla almeno una volta? Eppure, non lo diventi perché hai pubblicato. Se lo sei, prima o poi ti sarà indifferente ogni forma di riconoscimento. Imperturbabile al plauso, agli attacchi, all’invidia, imparerai a distillare l’intuito ricavando ciò che non ti aspettavi dal più meschino e reattivo dei tuoi detrattori. Lo scrittore è in un al di là qui presente, è la pietra che, rotolando, apre il sepolcro, il testimone dell’intima unione fra vita e morte, della resurrezione della carne già in vita. Lo scrittore non può esistere se non nella solitudine dell’esperienza, nel fulgido, insostenibile disadattamento in cui ti sprofonda quel gesto non condivisibile, scandaloso, antieconomico. Lo scrittore è il disadattato. Non lo si diventa per didascalia, sovrimpressione televisiva o intercessione dei critici. Fino a che ciò che pullula sotto lo sciame di lettere e numeri di un alfabeto non incontra l’eco che innesca in chi ne fruisce, il tuo essere anche scrittore, no, non esiste. Tutto il resto, libro o corpo, non è che supporto. Indispensabile perché accada il mistero, ma monco. Inchinati a chi ti ha preceduto, se occorre, ma sfregialo senza più piaggeria e reverenza. Guardati da chi si professa tuo amico. Ogni vincolo, anche il più puerile – al telefono, in pizzeria, al citofono, dal vivo, via sms, via facebook – con chi per mestiere ti giudica, magari sperando di essere presto al tuo posto, è sospetto. La mafia comincia con l’abuso di amico. La critica ha già i suoi problemi, astieniti. Osservali. Non stanno in piedi due Magisteri. I padri, rispettarli e tradirli. Nessun padre – ma se è per questo anche gli zii, i cuginetti e tutti quelli che sei tentato/a di evocare come parenti – è esente da colpe. Il più grande di loro ha contribuito alla fetida, calda cloaca in cui, raggiante o imbronciato/a, tu sguazzi. Guardati dai mentori, vivi e morti. Quelli del cupio dissolvi, del “dopo di me il nulla”. L’orrore del loro declino gli ha insegnato a rovesciare l’Edipo. Col sorriso interessato e suadente dello sponsor di turno sono pronti a strangolarti fin nella culla. A meno che tu stesso/a non pensi, a tua volta, “prima di me il nulla”. Che è la più grigia e senile fra le gioventù che è possibile scegliere. Ma in quel caso straccia questa lettera d’amore non spedita. Ho sbagliato indirizzo. E tariffa. Non ti riguarda.
(1) Le riflessioni contenute in questo scritto sono state stimolate, in parte, dalle impressioni suscitate da alcuni interventi di Gilda Policastro sul suo debutto letterario. Si veda, in particolare, qui. Niente di quanto dico va riferito a Il farmaco, per il quale l’autrice rivendica legittimamente una cornice appropriata di discussione. Piuttosto vuole essere un contributo sull’annosa, deleteria e, a volte, furba confusione fra gli oggetti che insieme concorrono a quel fenomeno che chiamiamo pubblicazione di un libro, a partire da quello che ritengo il più fragile e ambiguo, ovvero essenza, funzione, senso dell’essere scrittore e il loro dispiegarsi, in pubblico e in privato. En passant: l’inevitabile cortocircuito fra persone, genere, ruolo e persino aspetto fisico potrebbe indurre il malevolo o il brillante di turno a fraintendere la metafora della lettera d’amore. Per stare al gioco: sotto il profilo simbolico, in effetti, questa riflessione attesta la possibilità che amplessi e coniugamenti, con battaglie e graffi connessi, possano avere teatri in cui svolgersi che non siano letti: vertiginosa bellezza della convivenza di più significati in un solo enunciato…