Perché lo fanno?
Che fare?
Nel terzo anniversario dell’11 settembre, una riflessione sulle spudorate somiglianze di “luoghi” solo apparentemente distanti.
La guerra comincia dalla menzogna, si è detto, in tempi non sospetti. Prima delle polemiche scatenate dai risultati della commissione d’inchiesta del Congresso americano sull’11 settembre. Prima delle critiche che hanno coinvolto Blair e i vertici dell’amministrazione Usa a proposito delle contraffazioni informative (su tutte la ricerca di armi di distruzione di massa) su cui si fondava il principio della guerra preventiva e tutta la campagna che ha preceduto la seconda Guerra del Golfo.
Il cosiddetto dopoguerra ha dimostrato, sta dimostrando, come se ce ne fosse bisogno, non solo il fallimento di quella strategia ma, appunto, tutta la mistificazione che la giustificava agli occhi del mondo. La guerra continua e si incancrenisce nella menzogna.
Di più. Alla luce di quanto accaduto nelle ultime settimane sembra farsi sempre più incolmabile la distanza fra gli eventi e il lessico che abbiamo a disposizione per descriverli. Tanto che l’inflazione di termini come orrore o tragedia ci pongono di fronte alla macabra possibilità, in assenza di una lingua che possa nominare simili eventi, di non potere essere più in grado di elaborare, quindi, provare a comprendere e dunque (ci si augurerebbe) cambiare.
In particolare, la natura inaggettivabile degli eventi più recenti (Beslan, ma anche gli ultimi rapimenti e, purtroppo, le esecuzioni, in Irak) sta dispiegando all’ennesima potenza tutte le perverse facoltà di annientamento indifferenziato implicite nel principio di contrapposizione ultimativo e finale su cui si fonda, appunto, una guerra.
Intanto, il corto circuito informativo e la censura permanente dello stato di guerra rinsaldano l’aberrazione simbolica e rappresentativa, istituzionalizzando la cecità o l’ignoranza di massa sulle ragioni e le dinamiche di questi eventi. La verità è che, al di là della rappresentazione sempre molto parziale dei fatti, non c’è verità che non sia occultata o, nei complessi equilibri fra detto e non detto decisi dai poteri costituiti, non ci è dato di conoscerla, come dimostrano, ad esempio, le ripetute operazioni di silenziazione dei servizi segreti russi a scapito di alcuni giornalisti.
Ma anche accantonando per un momento l’incredibile e marcia concatenazione di menzogne di cui questi eventi – e la loro rappresentazione informativa in particolare – sono irrimediabilmente impregnati, la mistificazione più plateale che questi fatti e le loro rappresentazioni nel sistema informativo stanno affermando è il dualismo fra potere e terrore.
Mi sono già occupato della questione, in altro modo, in Amici e nemici. E la riflessione sui fatti di questi giorni mi sta aiutando a comprendere ulteriormente il senso di questo romanzo che, elaborando in termini letterari, fra le altre cose, anche il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, si occupa appunto delle profonde, inestricabili e, a volte, indicibili relazioni fra le istanze del potere e quelle del terrore.
E’ noto che fra potere e terrore non esiste alcuna differenza. Nessun programma o delirio ideologico potrà mai nascondere il fatto che unico scopo del terrore non può che essere il potere. Così come il potere, qualsiasi potere, alla fine, non conosce che un unico linguaggio per potersi perpetuare: il terrore.
La storia delle democrazie, e i costanti, inevitabili aggiustamenti costitutivi che le accompagnano (o che dovrebbero accompagnarle, a meno di non cedere all’illusione di averne trovato la formula definitiva, convincimento di per sé pericoloso e potenzialmente aggressivo, come dimostra l’arrogante idea di esportare la democrazia) raccontano la costante necessità di organizzare, limitare, sorvegliare le inevitabili quote di potere distribuite nelle varie componenti che le costituiscono, proprio per scongiurare concentrazioni di poteri tali da permettere a questi centri di controllo e di comando di cedere (e prima o poi chi ha il potere cede) alla tentazione di eternarsi dispiegando tutto il proprio, implicito, potenziale terroristico.
In termini evidenti di strategie e di significati i fatti delle ultime settimane raccontano la collusione atavica e irrimediabile fra potere e terrore. Da una parte, l’azione terroristica che colpisce l’inerme o il fronte pacifista di fatto fornisce argomenti e giustificazioni alle strategie aggressive messe in atto proprio dai poteri che nei lugubri manifesti ideologici e nelle rivendicazioni si dice di voler combattere. Dall’altra, dietro l’unanimità dello sgomento rappresentato, i centri nevralgici dei poteri costituiti, siano essi sani o deviati, paiono cinicamente in grado di capitalizzare la barbarie, incamerandone l’orrore (e a volte persino, il sollievo che segue, in tempi di terrore, un provvisorio lieto fine) come una cambiale da far fruttare nel tempo inasprendo gli stessi disegni strategici che hanno innescato i conflitti.
Si chiude così il cerchio che, storicamente, qualsiasi siano gli obbiettivi dichiarati (libertà, giustizia, etc.), a ogni gesto terroristico garantisce l’apparente annientamento (e la sua “messa in sonno”) non appena il potere, che se ne è servito, come traguardo o come bersaglio, si ricostituisce in nuovi equilibri (mentre, a un livello più individuale, per chi si è “ingenuamente” illuso partecipando consapevolmente a gesti criminali o assassini, il potere – a cui ambiva – riserva soluzioni che, dalla morte, al carcere, e ad altri non pubblicizzati compromessi, contemplano pur sempre un definitivo annientamento del sé).
Il fatto è che non esiste e non può esistere alcuna guerra fra potere e terrore, gemelli siamesi inestricabili, dai linguaggi e dagli obbiettivi sempre convergenti. Non è sbagliato, quindi, nutrire dei sospetti e proporsi di demistificare quel dualismo comodo e rassicurante, cercando le reali ragioni di certi accadimenti nelle sanguinose lotte fra gruppi di potere, appunto, oligarchie che si contendono l’influenza economico-politica su intere nazioni e continenti. Uscendo definitivamente da quell’incantamento che si fonda su un’altra atavica menzogna, e cioè l’ideologia rassicurante del libero Mercato.
Nonostante il tentativo di zittirle, rimangono, per esempio, ancora inevase alcune domande che, rileggendo la storia recente e lo sfondo politico-economico che, dalla crisi finanziaria mondiale del 2000 all’attuale rialzo delle quotazini del petrolio, ha preceduto e poi accompagnato l’affermarsi della teoria della guerra preventiva. Quali costi avrebbe dovuto pagare il cosiddetto Libero Mercato senza l’11 settembre e le strategie di guerra che ne sono seguite? E’ vero, come sostengono alcuni economisti, che a fronte di un disastro economico dato ormai per certo (dopo il crollo delle borse e altre simili nevralgie a stento contenute fino al 2001 inoltrato) un’economia di guerra sarebbe stata senz’altro preferibile? E per quale motivo queste tesi, sostenute da economisti tutt’altro che massimalisti, non dovrebbero essere dibattute pubblicamente?
Senza pretendere di essere esaustivi, occorrerà tuttavia rileggere proprio questi dati e questi sfondi nella loro integralità per cercare di comprendere la linea di demarcazione tra la propaganda di guerra e gli scopi delle scelte e delle politiche militari. Per osservare, per esempio, che da quando, più o meno con la nascita del Wto, ci si è accorti che lo spazio della cosiddetta crescita economica, che misura la salute dei mercati, non può essere davvero illimitato, la conflittualità a scatole cinesi delle holding e delle compartecipazioni che fonda e governa (nell’anonimato anaffettivo dei numeri e delle percentuali di azioni possedute) quell’utopia economica ha deciso di farsi globale. Ha cominciato cioè definitivamente e brutalmente a interferire con l’ordine del mondo. Mostrando, a chi voglia decidersi a guardarla, la natura belluina che nasconde dietro il mito decadente del benessere, che rimane pur sempre un argomento convincente per approfondire le disuguaglianze, distribuendo una tantum nuovi giochi, inediti passatempi e piccole quote di comfort al passo con i tempi.
Ora che l’identità fra potere e terrore, i cui attori sono sempre abilitati al cambio repentino dei fronti, ce l’abbiamo definitivamente sotto gli occhi, vedremo se riuscirà il paradossale gioco di prestigio con cui entrambi cercano ancora di convincerci che esista il Bene e il Male. O se si allargherà quel fronte di coscienza che, riconoscendo nell’uno l’altra faccia dell’altro, si adopera concretamente per spezzare la spirale, cominciando a vigilare e limitare chi detiene quote troppo grandi di potere (economico, mediatico, editoriale) invece di inchinarsi e essere servili.
g.s.
[11.09.04] – [29.09-04]