OPPOSTI DOGMATISMI e LUGUBRE SCHERMAGLIA

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Giampaolo Spinato riprende la collaborazione con LINUS. Sul numero di settembre:

Lugubre schermaglia

I media rappresentano il dolore come l’ultimo fronte di una battaglia polarizzata fra laicismo e confessionalità . Un modo didascalico di dibattere la questione che si rivela tanto chiassoso quanto sterile

di Giampaolo Spinato

Occultata da un edonismo effimero e demente. Rimossa dall’imbalsamazione salutista che consuma i corpi imbellettandoli con i miracolosi unguenti di una cosmesi che riesce a ipnotizzarci con grazie funerarie. Negata dalla superstizione fino all’ultimo, fino alla resa al cospetto delle sue manifestazioni più traumatiche e eclatanti. La sofferenza non fa più parte della nostra vita. O meglio, un’illusoria, smaniosa ideologia del benessere, fondata sulla paura della propria morte, lavora alla sua espulsione dall’orizzonte dell’esperienza. Concepita al più come una vergogna, quando l’imprevisto insorgere di una malattia ci costringe a fare i conti col dolore, la sofferenza spalanca ormai, nella vita privata, voragini di vuoto esperienziale in cui la disperazione pare prendere il sopravvento. E’ il senso della sofferenza che ci manca, il suo significato. Fino al punto di non riuscire più nemmeno a concepirla. Fino al punto di nasconderla e negarla. Fino a quell’epocale cedimento che sta tentando di cancellarne ruolo e funzione, sostituendoli con le lugubri celebrazioni confezionate dai mezzi di comunicazione. Con la scusa della semplificazione, giornali e televisione da qualche tempo ci ammanniscono un’idea della sofferenza ideologica e caricaturale. Arrivando a strumentalizzare casi più o meno celebri di malati terminali, i media rappresentano il dolore come l’ultimo fronte di una battaglia polarizzata fra laicismo e confessionalità. Comodi, impigriti nell’ipocrita e diabolico dualismo che oppone “cultura della morte” e “cultura della vita”, ci stiamo abbandonando a chiacchiere spettacolari ma senza significato. Come non fossero chiari il clericalismo e l’anticlericalismo raffinati, d’accatto, e di ritorno che monopolizzano il “dibattito” sul tema così impostato. Sottraendolo, con le mire egemoniche che guidano sotterraneamente quei pensieri, a una reale riflessione. Costringendoci ad aderire al rituale squallido e schematico dei sondaggi, scegliendo fra due sole opzioni (a favore o contro), come davanti al menù di un videogame o di un cellulare. Così, per qualcuno, il diritto all’eutanasia diventa l’ultima frontiera della battaglia per la dignità della vita. Viceversa, per qualcun altro, il suo impedimento salvaguarderebbe la stessa dignità . Non una voce, nei periodici proclami che scandiscono la lugubre schermaglia (da quella su Eluana Englaro all’ultima su Dj Fabo, ndr 2017), si è levata a ricordare l’intimo, ineffabile legame tra vita e morte, quell’insondabile ma concreto intreccio generativo che fa, sempre, dell’una la premessa dell’altra. Incapace di cogliere la stretta, indissolubile e scandalosa – e per questo mai compresa fino in fondo – unità fra l’esalazione dello spirito vitale e la nascita del nuovo, quel modo didascalico di dibattere la questione si rivela tanto chiassoso quanto sterile. Stiamo assistendo infatti a un esorcismo spasmodico e vergognoso, che non funzionerà. Non nell’esperienza della sofferenza che la vita, ineluttabile, ci riserva. Abbandonando la questione ai morsi infoiati di opposti dogmatismi, è a noi stessi che facciamo torto. Alla potenza, impalpabile ma inaudita, che l’esperienza del dolore porta in dote a chi è costretto ad attraversarlo. Alla conoscenza e, perciò, alla fertile energia creativa che può scaturire anche e persino dal duro, indicibile sentire di chi soffre. Avete mai visto l’aura violentata che circonfonde chi ha subito un lutto? Avete mai osservato la ritrosia istintiva che, mescolandosi cogli stridori di sgradevoli fragranze (non importa quanto vere o immaginate), ci indurrebbe a mantenere le distanze? Avete, abbiamo mai pensato al senso, agli sbocchi aperti da queste percezioni? Alla possibilità che l’unione intrinseca tra vita e morte, per quanto incomprensibile e paradossale, sia la sede possibile di una “grazia”. Uso deliberatamente questo termine, svestendolo della sua deformazione fideistica e consolatoria. Nel momento in cui, al manifestarsi inatteso e non ricercato del dolore, al suo contatto, ci si dispone a “contenerlo”, a provare a leggerne origini, derivazioni e sbocchi, o anche solo a tollerarlo, là dove l’indicibile ci lascia senza fiato, ciò che ci circonda si manifesta sotto un’altra luce. Dove visibile e invisibile si ricongiungono. Lì, dove nessun editto etico dovrebbe interferire. Dove la religione (anche quella “laicista”) non può e non deve più esercitare sacrileghe ingerenze. Lasciandoci a quel ricongiungersi di sensi, intesi come significati. A cogliere il perché, i come e le possibilità da essi spalancati. La vita, la progettualità concepita e generata in quel grumo ruvido e, a volte, intollerabile, che chiamiamo con il nome di “dolore”. Come avviene in natura, dove quell’unione, trasformando il decrepito, genera il nuovo. Così nel simbolico. Proprio come una nascita, dietro e oltre l’oleografia neonatale, è per chi diventa genitore, la prima, eclatante esperienza della propria deperibilità e, quindi, della propria morte. Così, una fine, che lo sappiamo cogliere o no, è sempre l’inizio di qualcosa. Ecco perché, al di là dei ridicoli pro o contro, ci si auspica che, anche nella morsa lancinante del dolore, ciascuno si equipaggi per riuscire quanto meno a intravedere un senso e dunque dare un orizzonte nuovo ai propri stessi compiti, alla propria vita. A meno che non ci si ostini ad ordinare nelle categorie del razionale un’esperienza che a queste categorie sfugge. Che, anzi, in quanto misteriosa e unica per ciascuno, impone la necessità di uno scarto di originalità in cui il nostro stesso essere, l’identità può, se vuole, compiutamente realizzarsi, generando un “terzo” spazio in cui, vivido, il “nostro” significato, il senso che diamo alla nostra esperienza, può superare limiti e trabocchetti della ragione e dell’irrazionale.

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LINUS SETTEMBRE 2008

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