Ci vuole (Anche, e ancora) un po’ di Poesia
NOI. Quelli del 4, che sia dicembre o marzo.
Noi, che fin da bambini, nei lontani Anni Sessanta, figli di muratori ed operai, sputavamo in bocca agli apartheid precostituiti e ci univamo, senza etichette, alle altre classi così definite già nei secoli, per costruirci Regni[1] su misura senza economia, anarchici, guerrieri, perché sapevamo già che il Capitale ambiva a colonizzare l’immaginazione e i nostri sogni.
Noi, che prima dei Fratoianni, dei Civati imborghesiti e dandy, sostituivamo già tutte le merci che diventavano pian piano immateriali con le rughe, la fatica, il piombo nel sangue che i nostri padri, così lontani da via Brera e dai Parioli, avevano messo in conto pur di crescerci senza Calenda intorno, senza Casini, senza Boldrini, Madie, Orfini e quei Richetti tanto Garantiti.
Noi, che per sottrarci al teatro infame dei predatori che saccheggiavano allora come oggi i guardaroba dei politici per rendersi più presentabili, guardavamo ai Berlinguer e ai Pertini come ad argini coriacei, insostituibili – mai megafoni, come i Salvini, i Renzi e la minutaglia che dilapida conquiste e sogni realizzati da quegli scomparsi miti – senza identificarci, senza gli spasmi intestinali dei fanatici, degli ingenui, dei frustrati.
Noi, pensierosi, sì, desideranti, sì, mai domi e disillusi, malvisti dai più anziani che già deponevano le molotov per diventare capi di governo, mai accolti, ostracizzati, tenuti a debita distanza per intelligenza, per libertà, indipendenza dalle stanze dei bottoni, a meno che non ci dichiarassimo fedeli, come gli scaltri, all’intransigenza di chi cooptava senza meriti, senza nessuna trasparenza, innaffiando le vene di questo Paese di sangue infetto, marcio.
Noi che avevamo già sognato i Renzi, gli scalpitanti giovani privi di talento ed argomenti – e perciò consoni alla richiesta di mediocri – se non la sete di potere, la scientifica distribuzione di prebende in bilanciati scambi di favori parentali da estendersi, in cambio di voti, a cerchi concentrici di amici.
Noi, che come solo i veri padri sanno fare, sognavamo tutti i nostri i figli.
Noi, che di Aldo Moro, delle sue colpe ed autocritiche abbiamo trascritto origini e radici. Noi, che dei carnefici siamo stati i più spietati, scomodi, isolati, accusatori, e che per le inconsolabili verità cantate controvento in faccia a chi, anche al governo, prima e dopo, aveva cresciuto psicotici perduti nel gorgo sanguinario del terrore, abbiamo pagato lo scotto infame di non piacere né a destra né a sinistra.
Noi, mai andati giù a una classe dirigente maturata a spasmi di rivalsa sulle spoglie di una Tangentopoli con le mani e le coscienze sporche, fino a quei Prodi, a quei Veltroni, a quegli intrugli di faccendieri istituzionali che all’occorrenza indossano le toghe degli antifascismi, salvo umiliare i partigiani ancora vivi se osano sillabare una Costituzione scritta col sangue, quella che adoloescenti tardivi e ritardati, sospinti da finanziamenti occulti, avrebbero tradotto volentieri in un contratto a tempo indeterminato per i loro scranni.
Noi, che le Consip e tutti gli altri inganni ve li leggiamo sulle labbra e dentro le pupille quando scrivete ed esaltate leggi ingiuste, introducete protesi fasulle nelle menti tenere inglesizzando le riforme per le telecamere o abbandonate garze negli stomaci, bandite obblighi feroci al posto dei vaccini.
Noi che viviamo, amiamo, noi che soffriamo, cadiamo e ci rialziamo per davvero, non in streaming, non su Facebook, Twitter o a LA 7, Linea Notte, noi che, ma certo, a volte, odiamo, capaci come siamo – solo a voi non consta, perché è facoltà che vi è preclusa – di mitragliare con petali di devastante, festosa, irosa, allegrissima poesia la vostra boria, usando proprio gli strumenti che credevate avere messo a punto per sedarci.
Noi, ieri, oggi, domani, il giorno verrà sempre, che vi presenteremo il conto, voci dei vostri stessi incubi, della disperazione che vi ha dettato e detta i miseri comportamenti che adottate nell’illusione di riprodurvi e autoconservarvi. Verrà l’esilio, sarà la vita nessun altro a scriverlo in una sentenza asettica come il cinismo con cui ci avete calpestato e per il quale non sarà nemmeno necessario sporcarsi piedi e mani, se non per tendervi la mano perché, voltandovi, possiate contemplare le sabbie mobili che vi stavano per ingoiare.
Noi abbiamo un cuore. Abbiamo corpi. Occhi. Anime. Pensieri, desideri, sangue. Tutto ciò che da giovani, da anziani e magari anche un po’ malati, ci inorgoglisce di avere speso e spendere per camminare a testa alta, eternamente, «splendidi, ventiduenni», come diceva il poeta di se stesso. Cosa che non potete dire e fare, voi, dalla fossa calda di stratificazioni di cadaveri delle rutilanti PlayStation da cui avete preteso di guidare un mondo inesistente.
Noi, scaturiti a spegnere i vostri sghignazzi da viventi sepolti dalla brama di privilegi che non vi garantiranno mai l’immortalità a cui anelate dal disperato niente dei vostri conti correnti, delle vostre garantite camarille. Quella è e sarà sempre solo di chi sa riconoscervi dietro i travestimenti e vi sta a debita distanza. Ai morti in vita non c’è onorificenza o nome di via che restituisca la dignità perduta.
[1]
«Ma si può sapere poi che cos’è ‘sto Regno?»
«Il Regno è un posto che non esiste da nessun’altra parte al mondo, dove puoi cambiare e diventare un altro, oppure rifare tutto quello che è successo, ma sapendo già cosa è venuto dopo…, così sai cosa devi fare per non farti male… E’ un posto che tutti lo vorrebbero ma solo io ho le chiavi per entrarci dentro…» (Il cuore rovesciato. Scrittori Italiani e Stranieri – SIS. Milano: Arnoldo Mondadori Editore – Premio Selezione Campiello 1999).