La scomparsa dei fatti nel mercato delle verità

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La scomparsa dei fatti nel mercato delle verità

di Massimo Sgorbani*

La “scomparsa dei fatti” di cui Baudrillard parlava già negli anni ’90, oggi sembra essere, se non realizzata in via definitiva, almeno in fase di evidente realizzazione. Rendere conto dei fatti è diventata operazione sempre meno praticabile, essendo via via venuta meno la credibilità di chi dovrebbe garantirne l’obiettività o, per dirla con un termine altisonante, la verità. Credibilità ormai del tutto assente nell’informazione e nella stampa che a seconda delle testate giornalistiche e televisive non solo propone dichiaratamente punti di vista variabili ma presenta di volta in volta fatti differenti (per dirla con Derrida, non informa sui fatti ma informa i fatti) perfino quando, pur facendo cronaca e non commento, sfoca o mette a fuoco, porta in primo piano o mette in secondo, e al limite, ma neanche così di rado, omette. Ora a questa in certo senso assodata mancanza di obiettività degli organi di informazione (che scontano, in sovrappiù, un deficit sempre crescente di indipendenza), si aggiunge quella degli organi istituzionalmente preposti all’accertamento dei fatti, vale a dire i tribunali – e a maggior ragione le commissioni d’inchiesta – che ormai da tempo agli occhi dell’opinione pubblica agiscono più o meno come i mezzi d’informazione, emettendo sentenze che subito vengono poste in discussione se non apertamente sconfessate. Per fare un facile esempio, ancora oggi – e proprio a dispetto delle sentenze emesse – non si sa bene se Tangentopoli sia stata una pagina di civiltà giudiziaria o un colpo di stato, e se Bettino Craxi sia stato un “mariuolo” o un martire, un colpevole in contumacia o un esule innocente.

In questo quadro di scomparsa dei fatti stupisce che alcune forze politiche dedichino tanto sforzo alla lotta alle cosiddette “fake news”. Stupisce perché a ben vedere proprio la possibilità di una falsificazione continua garantisce la persistenza di quel che è stato modificato in copia mendace, e apre così la competizione a dirsi depositari dell’“originale”. Quest’ultima appare come un’ipotesi più probabile di quella di una “ecologia” delle notizie che suona come pretesa di un anacronistico ritorno alla pravda e dovrebbe passare attraverso forme di censura e limitazione di un territorio aperto e “liquido” come la Rete.

D’altra parte ciò che qui chiamiamo “verità” ha un senso quando se ne dà informazione o, se vogliamo, spettacolo e vale per noi spettatori ma non per gli attori che, il più delle volte, sono al corrente (loro sì, noi no) della “realtà dei fatti” e di quello che accade dietro le quinte. Permanendo una molteplicità di verità, e quindi di falsità, verrà creduto non ciò che corrisponde a fatti ormai dati per insondabili, ma ciò che allo spettatore conviene maggiormente, quel che è più conforme alla sua vita professionale, personale, in un certo senso alla sua biografia, a maggior ragione se immaginaria e, in ultima istanza, alla sua economia psichica. Non più verità come un dato da acquisire, svelare (aletheia, “non-nascosto”, nella tradizione filosofica) ma, al contrario, come dato da manipolare in vista della sua fruibilità. Non oggetto di conoscenza ma funzione utilizzabile in vista di determinati scopi.

Anche la verità, e non c’è da stupirsene, è entrata a pieno titolo nel mercato, è diventata un prodotto da promuovere e vendere, per cui, piuttosto che restaurare un’improbabile ortodossia, i politici impauriti farebbero meglio a lanciarsi nell’ideazione di verità sempre più appetibili: verità 2.0, 3.0, verità in modificazione, sempre più al passo con le esigenze dei possibili acquirenti. Accettino, se già non lo stanno facendo, di confrontarsi con la concorrenza. In tempi di trionfante neoliberismo un ritorno a strategie monopolistiche non è più proponibile.

 


*Massimo Sgorbani è un drammaturgo.

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