Sul numero di febbraio di LINUS:
La guerra comincia dalla menzogna
La bugia più plateale che i conflitti e le loro rappresentazioni nel sistema informativo assecondano è il dualismo potere-terrore. Ma fra potere e terrore non c’è differenza
La guerra comincia dalla menzogna.
Tutti ricordano le polemiche scatenate dai risultati della commissione d’inchiesta del Congresso americano sull’11 settembre e le critiche che hanno coinvolto Blair e i vertici dell’amministrazione Usa a proposito delle contraffazioni informative sul ritrovamento di armi di distruzione di massa su cui si fondava il principio della guerra preventiva e la campagna che ha preceduto la seconda Guerra del Golfo.
Il dopoguerra in Iraq ha dimostrato, come se ce ne fosse stato bisogno, non solo il fallimento di quella strategia ma la mistificazione che la giustificava agli occhi del mondo (1).
La guerra continua e si incancrenisce nella menzogna.
Quanto accaduto nelle ultime settimane a Gaza conferma, anzi, esapera questa lettura. La distanza fra gli eventi e il lessico che abbiamo a disposizione per descriverli si dimostra sempre più incolmabile. L’inflazione di termini come “orrore” o “tragedia” ha inaugurato da tempo la macabra èra in cui, l’incapacità della lingua di nominare simili eventi senza scadere nella retorica impedisce di elaborare, quindi, comprendere e, di conseguenza, cambiare.
Colta in contropiede dal previdente tempismo dell’intervento militare deciso dal governo isrealiano, la comunità politica internazionale ha esibito un balbettio raggelante. Comprendere chi fra Israele ed Hamas avesse violato la tregua, allo scopo di “giustificare” l’azione militare che ha colto tutti di sorpresa, è subito diventata una questione di lana caprina. Silenzi, contraffazioni informative e propaganda, insieme alla disattenzione rassegnata dell’Occidente, alle prese con le ricadute elettoralistiche della crisi mondiale, hanno imbastito una trama nebulosa di menzogne sufficienti a spiegare, e per qualcuno “giustificare”, il ricorso all’azione militare.
Il Medio Oriente è da decenni il crocevia ininterrotto di rapporti di forza e equilibri che oggi si estendono fino a toccare gli interessi del governo iraniano che ha una posizione e un ruolo strategico di primo piano nello scacchiere geopolitico che si è venuto a creare dopo la caduta di Saddam Hussein e che dal conflitto mediorientale trae una vantaggiosa propaganda per la propria linea anti-israeliana. Ma tutti sanno, anche e soprattutto, che nella questione israelo-palestinese converge una tale complessità di controversie che, a ogni attentato, a ogni esplosione di bomba, si rigenera e si complica, riproponendo lo schema stantio ma efficace che oppone potere e terrore, un dualismo ideologico che da anni fornisce argomenti di giustificazione alla pianificazione di tutte le operazioni di guerra.
Accanto all’annosa questione politica posta dalla necessità di permettere e costruire la coesistenza di due Stati, il conflitto israelo-palestinese, come già le due “guerre del Golfo” e le dinamiche che di volta in volta innescano o disinnescano gli “stati di guerra”, impongono ormai da decenni una seria riflessione capace di demistificare la logica aberrante che, quasiasi sia il punto di vista da cui la si osserva, ci rappresenta un confronto fra un potere costituito e un contropotere chiamiato “terrore”.
Il corto circuito informativo e la censura permanente dello stato di guerra rinsaldano l’aberrazione di questo dualismo, istituzionalizzando la cecità o l’ignoranza di massa sulle ragioni e le dinamiche di questi eventi. Al di là delle rappresentazioni sempre parziali dei fatti, non c’è verità che non sia occultata in uno stato di guerra. Ma anche accantonando per un momento la marcia concatenazione di menzogne di cui una guerra è irrimediabilmente impregnata, la bugia più plateale che i conflitti e le loro rappresentazioni nel sistema informativo assecondano è il dualismo potere-terrore.
Ma fra potere e terrore non c’è differenza. Nessun programma o delirio ideologico potrà nascondere il fatto che unico scopo del terrore è, e non può essere che il potere. Così come il potere, qualsiasi potere, alla fine, non conosce altro linguaggio per perpetuarsi che quello del terrore.
Prima di concepire il convincimento abnorme e patentemente aggressivo di “esportare la democrazia”, l’Occidente e gli Stati democratici che vi appartengono hanno allestito nei secoli un ricco patrimonio di regole e modalità per gestire la convivenza dei cittadini idealmente improntate alla pari opportunità e all’uguaglianza fra loro. Ispirandosi tendenzialmente a questi princìpi, la democrazia, ovvero la forma di convivenza civile più emancipata e avanzata, ha dovuto e deve combattere nella sua evoluzione con gli interessi di oligarchie e potentati interessati a dirigerne a proprio vantaggio il cammino. E proprio la permanente tensione fra l’idealità del modello e le sue realizzazioni storiche suscita periodicamente la necessità di perfezionarlo, riscrivendo o integrando quei patti di convivenza civile che chiamiamo Leggi e Costituzioni, posti a garanzia di chi, per esempio, in una economia di mercato, non detiene mezzi economici sufficienti per garantirsi strumenti di comunicazione e persuasione capaci di formare delle maggioranze. Fra queste “cornici di convivenza” che stanno alla base della democrazia e della sua evoluzione storica, importanza decisiva aveva e ha la necessità di limitare la distribuzione delle quote di potere fra le varie componenti della società civile al fine di scongiurare concentrazioni tali da permettere l’avvento di centri di controllo e di comando destinati, prima o poi, a cedere alla tentazione di eternarsi, arrivando magari a dispiegare il proprio implicito potenziale terroristico.
Da questa prospettiva appare chiara la collusione fra potere e terrore. Da una parte, qualsiasi sia la sua ideologia, il terrore prima o poi tradirà una complicità mascherata o diretta col potere che “dice” di volere combattere. E, anche se a ciò mai si arrivasse, basterà osservare nei fatti le conseguenze delle sue strategie che, colpendo inermi e innocenti, di fatto rafforza il potere, giustificandone rappresaglie e strategie repressive. Dall’altra, il cosiddetto potere, o meglio, i poteri, siano essi sani o deviati, nazionali o sovranazionali. A volte, centri nevralgici di interessi economici paralleli alle istituzioni sulle cui decisioni, in nome di quegli interessi, ingeriscono. Altre ancora, assimilabili ai poteri costituiti. Tutti, specialmente quando sfuggono alle maglie del controllo democratico, cinicamente propensi a capitalizzare la barbarie provocata dal terrore, incamerandone l’orrore come una cambiale da far fruttare nel tempo, inasprendo i disegni strategici che hanno innescato i conflitti.
Si chiude così un cerchio storicamente verificabile. Quali che siano gli obbiettivi dichiarati (libertà, giustizia, etc.), ogni gesto terroristico è destinato a un apparente annientamento (e alla sua “messa in sonno”) non appena il potere, che se ne è servito per rilegittimarsi e imporre un ordine speculare a nuovi interessi, ritrovi i propri equilibri. Non pare del tutto sbagliato, quindi, nutrire sospetti e proporsi ogni volta di scardinare il rassicurante dualismo con cui vengono rappresentati i conflitti (anche quello di Gaza), cercandone le ragioni nel verminaio delle lotte fra gruppi di potere, fra oligarchie che si contendono l’influenza economico-politica su continenti e nazioni. Compito, certo, che spetterebbe al giornalismo, se non fosse disarmato dal fatto di dipendere spesso economicamente proprio da quei gruppi. Non serve però ricevere uno stipendio da una società appartenente a quel “comitato di affari” per diventare servili. Basta smettere di vigilare e, davanti alle immagini di distruzione, commuoversi, piangere, magari anche sbraitare, senza più porsi domande. Sapendo, in ogni caso, che l’opinione pubblica, in una democrazia, pesa sulle scelte di chi la governa. E dunque che contribuire alla formazione di quell’opinione (magari per dire no a una guerra) è un gesto che l’istituto della democrazia, a dispetto di chi la vorrebbe piegare ai propri disegni, ancora garantisce. Per quanto possiamo sentirci frustrati nel “villaggio globale”, il sentimento di impotenza davanti ad eventi che ci sembrano più grandi di noi non deve attecchire almeno sugli strumenti di partecipazione che abbiamo a disposizione. Solo una nostra rinuncia può rendere del tutto inservibili i cardini della democrazia.
Perché la guerra comincia, sì, dalla menzogna, ma si perpetua nell’ignoranza.
(1) Al di là dei giudizi estetici, anche W., l’ultimo film di Oliver Stone, contribuisce a chiarire, soprattutto per chi non c’era o non è informato sull’argomento, lo scenario di bugie e interessi non dichiarati che ha spianato la strada alle operazioni militari nell’Iraq di Saddam.
LINUS FEBBRAIO 2009