La Crisi del Romanzo è solo un genere scadente,
e neanche tanto più letterario
(breve riflessione su un articolo di giornale: Crisi del romanzo: tutta colpa della Storia, Corriere della Sera, Cultura, 27.07.03)
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e se sugli scaffali della nostre “librerie” i libri fossero ordinati secondo lo stato civile dei loro autori, quale arcano significato, e di quale definitiva pregnanza, se ne trarrebbe, sul romanzo, in Italia? Oppure, secondo il colore degli occhi. La città di nascita. I gusti culinari, quelli sessuali, turistici; i curriculum o i titoli scolastici; il numero di tessera sanitaria, quello dei libretti di circolazione. Idea! (non molto lontana dalla classificazione bibliotecaria, almeno nella sua funerea codificazione): perché non trarre succosi auspici e ardue sentenze da un ordinamento finalmente asettico e oggettivo attraverso i Codici Fiscali?
Perché, ancora una volta, prestarsi al gioco, perché precipitare nel baratro, cadere nella trappola? Perché, ancora una volta, svendere i propri strumenti (sapere, conoscenza, autorevolezza) a una modalità sclerotica e sterile di osservare gli oggetti della propria passione, la scrittura? Perché? Perché, in un colpo solo, appiattire l’ampiezza dello sguardo sulla miopia senescente del “dopo di noi il vuoto” e con questo fare il gioco volgare e grezzo di quel sistema malato (scrittura, letteratura, editoria) che si vorrebbe mettere sulla graticola finendo invece per integrarvisi?
Questo per dire come sia del magistero della critica, che spesso i titolari si affannano a tener nascosto (per quali recondite autocensure o richieste esplicite dei committenti?), ciò di cui abbiamo bisogno. Non, non più di apocalittici integrati. Non di sentenze, in buona o malafede. Non di erudizione usata a scudo di miserrime schermaglie in cui ciò che prevale è sempre e solo il grande o piccolo, presunto o vero potere, acquisito una volta che ci si affacci a tribune così prestigiose.
Altre sono le vere questioni.
La “fine del romanzo”, in generale, e l'”assenza di grandi romanzieri nel nostro Paese”, in particolare, sono titoli di un genere scadente e antico quanto il romanzo stesso. Genere parassitario, di chiacchierevole e perciò effimera consistenza, in cui paiono eccellere o coloro a cui sarebbe tanto piaciuto scriverlo, un romanzo, o, spiace dirlo ma è così, coloro che amerebbero fare terra bruciata intorno al proprio e a pochi altri nomi, distruibuendo a priori posti e allori in un Olimpo molto personale.
Tanto allappante e tetro appare questo genere che persino gli anglosassoni, campioni di pregevole e antica tradizione nella storia del romanzo e delle sue trasformazioni, a ogni nuova uscita, a ogni nuovo libro, si sbarazzano di ogni provincialismo e festeggiano, certo, con accenti esagerati, è vero, ma “festeggiano” la freschezza e la libertà del romanzare, infischiandosene dell’agonia presunta e delle processioni al suo capezzale.
Ma parliamo pure di noi.
Chi c’è dopo i Volponi, gli Arbasino e pochi altri in quell’articolo citati (e dimenticati)? Difficile trarre conclusioni significative sull’opera degli scrittori in vita. Ma un buon modo (semplice e pratico) per cominciare a farsi un’opinione è leggerli. O gli scaffali con date di nascita (codici fiscali, preferenze enologiche, forme di tossicodipendenze…) si fermano, nella migliore delle ipotesi, al primo dopoguerra? Eppure dovrebbero esserci pochi posti disponibili nello spazio destinato ai nati fra i Cinquanta e i Sessanta, visto che questa è la generazione in vita e questa generazione, lo si voglia o no, è stata ed è la protagonista (diretta o indiretta) di alcune trasformazioni che, quelle sì, sono all’origine degli epocali cambiamenti anche per la storia del romanzo e della letteratura nel nostro Paese.
A meno che, per stare qui, da noi, in Italia, appunto, non si voglia annoverare eventi come il ’68, gli anni del terrorismo e delle stragi e della tragedia non ancora risolta e metabolizzata di un Paese per cinquanta anni a sovranità limitata (tragedia in cui si innervano dinamiche e stati di oggi in una concatenazione che lega fra di loro l’edonismo anni ’80, i riverberi della caduta del Muro di Berlino e il romanzo della classe politica decapitata – siamo sicuri? – all’inizio dei ’90 dalla magistratura); a meno che tutto ciò, dicevo, non debba essere considerato, in una dubbia misurazione di pena ed esperienza, meno di una guerra e relativo dopoguerra.
No. Altri sono i luoghi, i temi delle contraddizioni. Come si vede.
La fine della cultura d’èlite, ad esempio (ammesso che questo sia un processo davvero completato, ma almeno dal punto di vista dell’influenza del potere sulla cultura siamo lontani, a mio avviso, da reali cambiamenti), ha introdotto una rottura: non più scrittori “eletti” nei salotti letterari, ma oggetti in forma di libri (qualche volta davvero tali e qualche volta, per la gioia e l’interesse degli editori, solo pretestuosamente esibiti in quella veste) a disposizione di un mercato di cui tutti siamo protagonisti (autori, editor, critici) e, ognuno per la sua parte e contributo, responsabili.
Che non sia proprio questo passaggio all’origine della non riconoscibilità , ad esempio, dei percorsi più significativi, della dispersione di voci e di talenti in una vastità di offerta in cui, perduto il vecchio “padrinaggio” (una volta i “nuovi” avevano dei padri che li seguivano, li consigliavano, ne proteggevano l’audacia, se era il caso, ora hanno magari delle ottime e sapienti persone sempre più frustrate dalla legge del marketing e dei numeri), accanto ai fisiologici avvicendamenti di camarille e gruppi di interesse che si spartiscono occasioni e casi editoriali come stock di dentifrici o cadeux natalizi , esistono solo i singoli, tanto soli quanto più veramente aderenti, senza concessioni, alla propria ricerca, ai propri percorsi?
Che in questa complessità new-global che investe anche la letteratura, un gesto di autentico afflato civile, una forma (e un gesto) di responsabilità politica lungimirante non sia proprio il risolversi a voler leggere, scoprire, conoscere queste dinamiche e la loro complessità . Seguire, farsi aiutare nel raccogliere, nella vastità dell’offerta, la qualità dei percorsi e visitarli, saggiare e temprare la loro crescita parlando dei contenuti, prima di contribuire colpevolmente alla decadenza che si vuole denunciare (tra l’altro ben rappresentata dagli eventi di questa legislatura) col balbuziente, sclerotico integralismo apocalittico di cui sembrano ammalarsi, insieme alle testate più autorevoli per cui scrivono, molte fra le poche voci significative che ci sono rimaste.
Per sconsiderato, definitivo e viscerale affetto (sia pure malriposto o irto di lacune e errori) in ciò che vivo come fondamento della mia stessa identità ma che, per funzione effetto ed importanza, so trascendere da essa, firmo queste note, consapevole di poter essere frainteso, anche se vuol essere soltanto un sintetico, parziale, contributo.
(27.07.03)