Dis-ordine, antiaccademia, ludico et

Spread the love

appunti per un “teatro del significato”1

:::

Per Scrivere per il Teatro,
ma anche soltanto per scrivere e basta,
propongo:

– l’abolizione del “drammaturgo”;
– l’abolizione della parola e della figura;
– l’abolizione, nel gesto della scrittura, dal e del vocabolario, cioè delle classi, dei gradi, dei ceti e delle centurie che, con la pena di simili cacofonie senza più etimo, disciplinano e occludono invece di “rivelare”.

# Strumenti, compiti, usi

Non è una provocazione. Non ha niente a che fare col folle, il “non senso”, il caotico. E non dico nemmeno niente di nuovo. Traduco soltanto, in modo imperfetto, il tormento o, se si vuole, la dinamica più naturale, quando si ha a che fare con lo scrivere.
Stravagante idea della tecnica di interpretarne, ordinarne le strategie.
Parole e alfabeti ci sono. Parole e alfabeti non bastano. Di qui, il corpo a corpo in cui, accanto alla conoscenza di vocabolari già dati, si muove un bisogno di reinventare, di sbattere letteralmente sintassi e parole per contattare il senso che preme e che lo stereotipo non può davvero più accogliere. Un dilemma, un irriducibile gioco fra ludico e penitus2, tra distanza, ironia e penetrazione, in cui quell’abolizone, o temporaneo sollievo, sospensione assoluta o “a divinis”, come si vuole, interessa appunto tutti quei gradi, centurie e classificazioni di instabili, fragili, fraintendimenti grandiosi, che sono i vocabolari. Parole classificate e ordinate, va precisato, per convenzione, utili per stabilire un piano comune di scambio, ma con cui sarà bene, ogni tanto, intavolare un discorso meno sclerotico, per contattare anche “sensi”, un fluire di significati non sempre, come pretendono appunto i vocabolari, già dati.

# Mantice e Gravidanze

Scrivere, tra le altre cose, è manipolazione, ri-creazione del mondo per mezzo di un alfabeto. E’ traduzione esperibile di un’attività permanente, spontanea e invisibile che si chiama: pensare, fantasticare, interpretare, immaginare, riflettere…
In senso lato, scrivere è anche il rovescio, in un mantice, un cambio di passo, di ritmo, costante, del leggere, dove invece si coglie, si vede, si incontra, si accede a quello che accade.
Tra “scrivere” e “leggere”, c’è un terzo, il linguaggio. Luogo-figlio da prendere molto sul serio. Unico spazio dove l’amplesso, anche inconscio, la copula estesa e continua tra dire-ascoltare, agire-fermarsi, andare e venire, può, appunto, figliare: generare barlumi di senso finalmente visibili in un alfabeto.

Questa nidiata di figli (parole, sintagmi, sintassi, sistemi di segni, quali che siano i codici scelti per le rappresentazioni) è stirpe mutevole, ibrida, anomala, anche bastarda, come solo una lingua che vuole significare sa essere. L’invisibile intreccio di concatenazioni, la loro sostanza dinamica, trasformativa, rende i linguaggi dei provvisori sistemi di convenzioni. Di cui sarà bene non tralasciare quieti e tensioni nelle gravidanze e i frutti via via generati.

# Il sistema della convenzioni

E’ allo statuto convenzionale dei segni e delle parole che ci si riferisce e, a volte, ci si deve disperatamente aggrappare, per scrivere. Ma, nella rischiosa e più intima attività esplorativa di questo gesto, il rispetto per le convenzioni deve sapersi agilmente mutare in attacco frontale, attentato, deliberato disprezzo e avversione. Da dove altrimenti può farsi largo, talvolta, l’intuito, se non dal coraggio di muoversi senza strutture già conosciute, dalla disposizione dolce e spietata (nella scrittura convivono a volte elementi nella realtà inconciliabili) a lasciare fluire quei significati che cercano un Verbo, un alfabeto in cui potersi incarnare.

Questo scrivere è anche saper fare dis-ordine. Sostenere l’assenza di protezione.
Per quanto mi sforzi di trovare un’immagine per riuscire a spiegare, non c’è niente di meglio che la semplice osservazione. Sempre, nel corso degli anni, nei laboratori in cui condivido con gli altri quel gesto, ho potuto vedere il linguaggio pretendere con dispotismo il suo spazio: è l’emozione, l’affetto (coi loro sconvolgimenti, dolcissimi o disperati) che preme sotto ogni segno: è il senso, è lo spazio sensibile del significato, non gli altri, non “il” critico o “il” maestro, che spinge, comprime, giudica, assale e dilania le parole che usiamo. E’ ciò che sentiamo e proviamo (anche l’equivoco, il pregiudizio, lo sbaglio) che forgia il nostro vocabolario. Che gratifica o frustra. Che orienta, entusiasma o deprime. Tanto vale riconoscere a questo spazio invisibile il suo habitat naturale, servirlo e non asservirlo o costringerlo in uno strumento, il linguaggio, solo per poter esercitare uno sterile virtuosismo. Tanto vale scoprire, svincolarsi dalla tentazione di controllare.

Da qui l’appello al dis-ordine, all’antiaccademico, nel mentre del gesto.
Da qui anche il riconoscimento di un altro sistema.
Il sistema delle convivenze, se così si può dire.

# Il sistema delle convivenze

Il dis-ordine, la libertà e l’eversione simbolica che la realizza nel corpo a corpo coi codici di per sè senza significati, semiologie senza semi, non è caos o anarchia. E’ possibilità . E’ un modo di riabilitare e nutrire un sistema di convivenze, lo spazio in cui il reale e il possibile appunto si inseminano, generano.
Questo dis-ordine sa, può convivere con il già dato, già detto, il comunicabile o risaputo. Come laboratorio di scambio, ri-creazione, invenzione, tra lingue, proiezioni in esse già implicite, e linguaggi giocati, attentati, ogni volta rialfabetizzati, questa anti-accademia è la vitalità della lingua, resurrezione dei testi-cadaveri fossilizzati in classificazioni ermeneutiche. Tra il ludico, appunto, e l’interiorizzazione dell’oltre, del penitus, dello scendere in profondità, questo scrivere può intravedere qualcosa di nuovo che finalmente non sia, come di solito avviene, solo qualcosa da vendere.

# Il sistema delle convenienze

Conviene a tutti, per quanto possa apparire azzardato, considerare il rischio ma anche la sorpresa di questa natura più esplorativa della scrittura. Quella che usa la tecnica, ma non ne è definita. Tenerne conto, significa non solo dar fiato alla scoperta ma incidere concretamente su un sistema di convenzioni. Questa cura, questo accento sul senso del gesto permette di superare schemi decrepiti e polarità inconcludenti. Liberarsi dalla finta dialettica del duale, dalla sua dittatura insignificante. Contenuto-forma, destra-sinistra, guerra-pace o, per stare in tema, teatrotesto-teatrosenzatesto. Come avviene questa liberazione? Distinguendo tra gesti e funzioni. Ri-conoscendo quali gesti corrispondono a quali figure-funzioni. Il sistema teatro, il suo colophon, il diagramma convenzionale delle funzioni presenta diverse figure partecipi e autrici di unico gesto-testo. Il regista, l’attore, l’autore, il light designer, come si dice, i tecnici, in quanto ruoli, figure, possono convivere in una o più persone, incontrarsi come parti di un gesto che ne definisce la funzione, ma non può essere definito da esse. La priorità sta nel gesto e nel suo significato, non certo nel gioco delle carte in cui si contrappongono tesi e figure: registi-autori, performance-testo, immagine-parola. Vecchie e inutili dualità . Di cui solo una certa pretesa teorica o cultuale delle figure (l’Autore, il Regista) si serve, per legittimarsi più che per “leggere” i gesti, il teatro e la sua storia. Esistono esempi di limpidissima ricerca linguistica in rappresentazioni senza Parola. Così come si danno infiniti esempi di aridità di significati e dormiveglia nelle convenzioni nel cosiddetto “teatro di parola”. E sarebbe auspicabile scardinare questa vecchia diatriba, concependo finalmente una compenetrazione tra parti e tra accenti (parola, performance, immagine, testo) in nome dell’unico gesto che, anche involontariamente, all’origine, li accomuna, cioè la scrittura, nel senso più pieno e compiuto della parola.

Maggio 2003


1 intervento preparato (e solo parzialmente letto) per il convegno “Scrivere per il Teatro”, Bologna, Palazzo Malvezzi, Sala dello Zodiaco, Via Zamboni 13, 30-31 maggio 2003, organizzato dal Teatro delle Moline.

2 si noti come per “penitus” (dal latino: “a fondo”, “bene addentro”, “fino al più interno”) il codice html non consente la traslitterazione esatta della i accentata come nel disegno inserito nel titolo.

Lascia un commento