Sul numero di dicembre di LINUS:
Di cosa parliamo quando parliamo
Nel Paese degli opposti dogmatismi, ogni discussione lascia il tempo che trova. L’oggetto del contendere non corrisponde mai al contenuto apparente del confronto. L’agenda politica, sovrapponibile a quella mediatica, racconta storie il cui unico scopo è di costruire un eccitante passatempo che, a colpi di machete, disboschi il potenziale consenso concorrente, occupando così energie e investimento emozionale in attività del tutto ininfluenti quali avere un’opinione sulla giustizia, la moralità, la lotta alla criminalità e quant’altro.
Quale che sia il polo di appartenenza, a nessuno dei contendenti interessa mai davvero la soluzione di questo o quel problema. In un contesto di scontro così fortemente radicalizzato, del tutto scollato dal tema apparentemente apparecchiato, è del tutto inutile, per non dire ingenuo, assumere una posizione responsabile, che risponda cioè del proprio grado di attendibilità e preparazione sull’argomento all’ordine del giorno.
Più decisive, ai fini della campagna elettorale permanente che governa il dibattito sociopolitico in un tale Paese, sono la mistificazione e la teatralità con cui ufficiali e truppe degli opposti schieramenti fingono di scontrarsi su mandato di chi li paga. Tutti hanno ragione su tutto. Tutti vogliono una giustizia che funzioni o un’economia che cresca. Ma gli argomenti con cui è messa in scena l’inconciliabilità delle visioni sono retorici perché ogni tema è solo il pretesto per l’affermazione di un partito preso che svuota di significato tutto il resto.
Dietro il teatro – chiassoso, folcloristico, volgare o perbenista – del confronto simulato, nel Paese degli opposti dogmatismi ciò che conta è l’acquisizione e la conservazione del consenso. Il marketing ha sostituito il significato, la persuasività, la fondatezza delle argomentazioni, con il tariffario dello show-opinion. Piegando il linguaggio alla propria convenienza, l’asticella della moralità, dell’etica, nel senso più alto e nobile del termine, è spezzata. Ognuno dice quello che gli pare, senza assumersi responsabilità . Potrà sempre tirarsi indietro e sostenere il contrario con la scusa di essere stato frainteso.
Nel Paese degli opposti dogmatismi non ci sono più le “figure di merda” di una volta. Il ripensamento, la smentita, la menzogna cibano il ventre molle di quella che, per opportunismo fatto passare per pluralismo, qualcuno chiama ancora “opinione pubblica” e che invece costituisce il terreno di conquista del consenso da parte di un’ideologia bipartisan affannosamente impegnata ad occuparla con gli strumenti della demagogia.
Non c’è popolo, non c’è bisogno da risolvere in questa partita dove l’urna elettorale è un’icona like o dislike, come nei sondaggi o nei social forum che disciplinano gli utenti in rete. Non c’è progetto, non democrazia, non più visioni del mondo, là dove regna l’umoralità, il mal di pancia e un «Io» sollecitato nei suoi impulsi primordiali narcisistici, nel suo disperato bisogno di sognare. Compito di chi cerca consenso è ammaliare, espropriare sentimenti con slogan accattivanti, altro che risolvere bisogni. Per farlo, l’economia di mercato gli mette a disposizione seduzioni sempre più psicotiche che garantiscono il circolo “virtuoso” della domanda e dell’offerta.
Arma vincente di questa operazione è la capacità di sollevare l’individuo dalla fatica di pensare con i propri mezzi per affidarsi al più sofisticato sistema di delega e deresponsabilizzazione che sia mai stato concepito e realizzato. Quello del “non penso, comunque sono” – poiché il riflettere comporta una quota esorbitante di fatica, mentre il semplicistico citare, il condivido (pensiamo al bottoncino share sul web), e il cliccare sul mi piace esenta dalla fatica improba dell’essere. Per di più: “ho il diritto di esprimere la mia opinione” – potere della democrazia-nonsense. Anche se non conterà niente, il mio miserrimo parere. Anche se io stesso ignoro di cosa stia parlando.
Non a caso il criminale, il peccatore, colui che è fuori dalle regole, l’incoerente, il mariuolo (per ricordare un epiteto che ha fatto storia), invece di stimolare risentimento o riprovazione, sono al centro delle nostre simpatie, della curiosità morbosa che fa l’audience. La deformità, il mostruoso, il raccapricciante acquistano valore condiviso e, nell’esposizione mediatica, là dove si va a mietere consenso, anche il front-man politico deve presentare gli stessi tratti di mostruosità e di bizzarria dei casi umani di cui si ciba l’utenza televisiva.
Osserviamo gli eccessi caricaturali delle figure politiche di primo piano e ce ne faremo una ragione. Il deficiente poi ci è “così simpatico”. Il demente è “tanto carino”. Il bugiardo, un buontempone. Il macabro, il deleterio, persino l’inguardabile finiscono per non avere più la funzione di esorcismo che un tempo aveva la ludica frequentazione del “terribile” nella lettura, nei gusti musicali o cinematografici. Con buona pace di chi, come noi, è convinto che la televisione, così com’è concepita in Italia, sia l’erede dei circhi ottocenteschi che portavano a conoscenza di folle sbalordite l’esistenza di mostri inenarrabili (e davvero per alcuni dei suoi abitanti la televisione è un utile recinto di contenzione), nell’era del dogma teatralizzato, il bestiale assurge a esempio.
Se tanto mi dà tanto, pensano in molti, anch’io posso permettermi un alias, un personaggio sporco, becero, persino criminale, che monetizzi le pulsioni più bizzarre o estreme, senza che questa maschera sputtani la mia identità nell’epoca della sua riproducibilità, del fotoritocco permanente. La tua fedina penale gronda sangue? Si troverà un reality che te la ripulisce. Il mostro dorme nel nostro stesso letto, e nessuno se ne allarma. Salvo poi scandalizzarsi davanti alle statistiche sul consumo di droghe o alla criminalità minorile. Ma questi collegamenti non sono e non saranno mai alla portata dell’analisi sociopolitica, né dell’informazione, che non possono sopravvivere senza banalizzare, altro fondamentale per il buon funzionamento di un Paese conteso da opposti dogmatismi.
Il disorientamento che l’isteria del linguaggio collettivo ci porta in dote comincia con lo sgretolamento delle ideologie consumato fin dagli Anni Settanta sotto altre maschere da altrettanti dogmatismi fino alla caduta del Muro di Berlino. Il cancro corruttivo smascherato poi da Mani Pulite, insieme con il sentimento disarmante di essere vissuti per decenni in una democrazia a sovranità limitata, ha spalancato la strada a tentazioni semplificatorie e strategie difensivistiche delle classi dirigenti, creando le basi di quella che sarebbe diventata l’anomalia italiana.
Ora. Benché questa anomalia abbia nome e cognome, Silvio Berlusconi, occorrerà una volta per tutte rendersi conto dell’aggettivo che la qualifica: «italiana», cioè di tutti. Dovrà farlo la destra, che la cavalca, ora che il verminaio che accompagna il tramonto del suo uomo immagine viene a galla. Dovrà rendersene conto l’opposizione, che non può continuare a credere si tratti di un’influenza passeggera, come se cavando il dente (il Cavaliere), si possa rimediare a un’anomalia che, a conti fatti, le corrisponde in toto, non avendo saputo proporre alternative ai valori messi in campo da questo imprenditore brianzolo, a suo tempo tesserato della P2.
Occorrerà ripensare senza sconti al ventennio di omissioni politiche che abbiamo alle spalle per ricostruire un dibattito politico che non sia solo il paravento di ricatti fra oligarchie. E, nel frattempo, sperare che l’apoteosi del mostruoso non tracimi dal farsesco che finora sembra averlo caratterizzato. Perché la radicalizzazione dello scontro fra opposti dogmatismi, la storia dovrebbe avercelo insegnato, induce in tentazione. Non ci vuole molto a chi ne ha i mezzi – e si sente sotto pressione – procurare l’allarme necessario al consolidamento di un potere. Un venticello simile comincia già a spirare dal Palazzo. Non ci sarebbero innocenti, in questo sciagurato caso. Anche chi fin qui si è accontentato di urlare e strepitare senza riconoscere quale nefasta ombra lo leghi indissolubilmente al nemico che pretende di volere abbattere, non potrà dirsi innocente. Meglio pensarci prima, questa volta. Bello sarebbe poter dire “è solo un incubo, dormivo…” Saremmo noi il mandante, nell’infausto caso. Buon Natale.
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LINUS DICEMBRE 2009