Dell´indolore prestito dei corpi

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Quella gaiezza artificiosa con cui assecondiamo, allineandoci con l’enfasi dei telegiornali rotocalchi, il disinvolto, garrulo interscambio dei corpi altrui e nostri. L’ingenuo incantamento in buonafede di chi, per (in)esperienza non sempre assimilabile al valore dell’anagrafe individuale, assiste alla centrifuga dei corpi, alla festa infinita e luccicante dell’equivalenza semantica assegnata loro dalla dissolvenza televisiva (che apparenta i dentifrici al Papa). La malafede sussiegosa di chi ne teorizza, viceversa, trionfi e ploriferazioni, con gli argomenti eccentrici del libero mondo dei mercati. E l’ottusità arrogante, intellettuale di chi struttura tornaconti con l’annuncio missionario della necessità di un’implosione raggiungibile soltanto oltrepassando l’acme (la cruna d’ago) di questo processo decadente, bersaglio della loro satira e, dunque, agognato oggetto della loro lode.

Si fonda su un principio di cieca noncuranza l’accoglienza che questi orientamenti riservano al fenomeno dell’interscambio, del prestito dei corpi, del tutto assimilati/labili alle merci. Come se lo spettacolo (e il gesto) del travestimento, dell’alternanza di funzioni e ruoli o, più precisamente, il gioco delle parti, la recita (professionale o quotidiana, poco importa), non comporti altri movimenti che non siano riconducibili alle nostre motivazioni (giustificazioni), ai nostri scopi o ai nostri innocui spassi, siano essi individuali o ritualmente condivisi.

Per quanto ludici o sgargianti, dunque, appetibili, gratificanti, anche i più sfumati o sorvegliati movimenti dei manipolati producono sottili e (a sguardi disponibili a una prospettiva che non si accontenti della misurabilità fisica dei corpi) apprezzabili cambiamenti la cui incisività nel nuovo “io” prodotto lungo la catena dello scambio (quello che precede, quello provvisoriamente assunto, quello che segue, con le eventuali, perduranti compenetrazioni) non è possibile davvero ingenuamente sottovalutare, anche nel caso, anzi, soprattutto nel caso in cui ci si disponga ad osservare quel fenomeno, sospendendo ogni giudizio (morale) conclusivo, almeno per il tempo necessario ad indagarlo.

Impossibile, naturalmente, pretendere esaurientemente e didascalicamente di descrivere in una cornice comunicativa strutturata intorno ai limiti linguistici degli alfabeti la complessità dei fenomeni in questione che abbiamo detto interessare i corpi del sé. Più plausibile e, forse, più efficace, ai fini di questa esplorazione, potrebbe però essere il determinarsi a cogliere, osservare le sottili modificazioni attuate quanto meno in seno alle singole sfere corporee interessate, o alle loro singole parti dialoganti.

E solo a titolo esemplificativo, si potrebbe cominciare da un apparato, una zona-cerniera che identifica l’identità vitale rispetto a quella vegetativa e che sensibilmente, per sua propria natura, non può elaborare rappresentazioni, riflessioni e scelte conseguenti se non a partire dall’accogliemento delle stimolazioni che gli vengono impartite dalla realtà fisica (percepita) e dal contatto con essa derivante, oltre che dalla sua materialità percepibile, dalla disposizione, dalla scelta, dagli intendimenti dell’identità (dell’io) che si dispone a contattarla.

Quest’area di natura animica, strutturalmente confinante fra spazi, aree molto più polarizzate (materiale, fisico e immateriale, volitivo, riflessivo, immaginifico, rappresentativo), non ha, non può avere/attivare le proprie funzionalità di messa a fuoco, congiungimento e travaso tra le parti se non sollecitata da queste. Ovvero, è perché sollecitate dal contatto con la realtà fisica percepita attraverso i sensi (tatto, vista, udito, gusto, olfatto) che possono innescarsi le prime elaborazioni di carattere emozionale (piacere, disgusto, dispiacere, etc.) che abitano proprio questa zona di cerniera animica. Ed è, viceversa, in virtù di questi ritorni sentimentali o proiettivi che, sempre questa cerniera elaborativa, può governare le emozioni, dando, travasando nella sfera fisico corporea dell’identità proprio quelle impronte emozionali che dettano o suggeriscono azioni, reazioni, comportamenti e tutte le pertinenze più specificatamente appartenenti al corpo fisico del .

Ora. Se così fosse, se cioè nella dinamica e negli spazi descritti da questa ipotetica e parzialissima sgranatura dell’io si dovessero davvero verificare (in tempi e modi di fluidità e complessità non restituite certo dall’esempio fatto) i movimenti su accennati: è davvero possibile pensare che gli scambi, le entrate-e-uscite, le sovrapposizioni e tutte le danze dei mascheramenti di volta in volta prescritti o somministrati all’io in questione possano essere del tutto ininfluenti?

Persino assumendo la più ingenua delle disposizioni, qualora la si assuma per vedere la questione, non per soprassedere o dimenticare, appare evidente che non possa darsi alcuna relazione ininfluente (o innocua, nel senso lato di priva di conseguenze, prima che nel senso di “non dannosa”) fra l’identità e gli spazi, le aree, la realtà che sceglie o che è costretta ad abitare, contattare, vivere, manipolare o tollerare.

Con buona pace, dunque, del più altero (e difensivo) arroccamento di chi, intento esclusivamente a trarre vantaggio dal gioco delle identità danzanti, moltiplicate, moltiplicabili, gaudenti (ma anche esproprianti), si dovrà/potrà affinare i sensi, tutti i sensi, quelli più propriamente atti alla percezione fisica e quelli, del tutto complementari e altrettanto concreti e normalmente attivi anche se meno indicizzabili, per penetrare più efficacemente l’intensa attività cointeressante i corpi fisici e quelli eterici.

Magari per smentire la teoria dell’indolore prestito-interscambio di questi corpi. Per non passare oltre le sfumate o sostanziali modificazioni che ne alterano dinamiche e equilibri. O, anche, per emanciparsi da certi atteggiamenti sprovveduti con cui, in qualità di spettatori, invece di partecipare (e quindi accogliere ma anche restituire), ci accontentiamo d’essere meri recettori, ovvero vuoti a perdere (e riempire). Dis-identificati, dunque: espropriati del proprio stesso sé. Proprio quello che persegue l’ultima, più pornografica frontiera della divisione del reale, innescata con la primordiale “divisione del lavoro” dal Capitale, cioè da una visione prospettica del mondo tesa a misurarlo, sfruttarlo e controllarlo, ma del tutto cieca alla possibilità, alternativa, di esperirlo.

E R A » la dea « – #9

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