CARO PAOLO «LITTLE KING» ROSSI

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> Pubblicato su Satisfiction (novembre 2010)

ABBIAMO ASSUNTO, PRIMA, DURANTE E DOPO, UNA POSIZIONE CRITICA SULLA TRASMISSIONE DI SAVIANO-FAZIO PER LE RAGIONI ESPOSTE su Satisfiction, QUI E QUI. ORA, NEL TRIONFALISMO CONSOLATORIO E AUTOREFERENZIALE DEI SUDDITI DELL’AUDITEL, QUALCHE VOCE DI DISSENSO RIPRENDE LE NOSTRE TESI. PUBBLICHIAMO UN APPELLO NEL CONTEMPO INTIMO E PUBBLICO A UN OSPITE ANNUNCIATO: PAOLO ROSSI

Caro Paolo, anzi,
Paolino, perché è così che ti chiamo da sempre come tutti quelli che lo fanno non per blandirti, ma per caricare il tuo nome di tutto l’affetto che susciti.

Ci conosciamo da quando, agli inizi della carriera, volteggiavi come un magico Ariel su una pertica del Teatro Gerolamo, con Umberto Simonetta. Da quando, nel Calapranzi di Pinter, piuttosto che nelle commedie di Bond, collaudavi il tuo estro abrasivo modellando gangster, teppisti e altri personaggi in cui, nel cuore degli Anni Ottanta, si specchiava già l’infezione e la disperazione che pullulava sotto le sfolgoranti, ipnotiche illusioni della società dei consumi.

Sono stato fra i primi a occuparmi del tuo lavoro e a scriverne, come è successo con tanti protagonisti della stagione dei comedians. Con disinteressata allegria mi pregio di avere coniato quel Paolo «Little King» Rossi che ti divertiva, accompagnandoti in pubblico. E nella più recente delle tue performance on the road ho intravisto la consacrazione del tuo incommensurabile talento e la matura, definitiva investitura di un’eredità troppo a lungo attesa.

E’ passato tanto tempo.

Eppure, una fitta rete di coincidenze e di strani ricorsi sembra indicarci con chiarezza il ruolo decisivo che hanno avuto quegli anni per l’Italia di oggi. Gli slanci viscerali e ideologici e il riflusso che ne seguì. I colpi di stato striscianti nei “piani di rinascita” nazionali e la compromissione di apparati dello Stato nell’esecuzione di stragi ancora senza colpevoli. La compravendita della libertà di antenna spacciata per fine del monopolio televisivo. E molto altro ancora.

Non possiamo fare finta di niente. Il Paese in cui oggi viviamo non è riuscito ad attraversare gli snodi cruciali della sua storia. Dalla Resistenza al ‘68, dalla strategia della tensione al terrorismo, dal Muro di Berlino a Mani Pulite fino all’avvento della Seconda Repubblica. Gli shock e le ansie, ma anche le prospettive spalancate da questi decisivi passaggi sono stati disinnescati e sedati con untuosi ricatti e patti sottobanco che a tutt’oggi riempiono gli scheletri di tutti gli armadi, da destra a sinistra.

La violenta polarizzazione dello scontro, l’assenza di progetti, la quotidiana esibizione muscolare dei rapporti di forza e il conseguente sterminio dei significati a vantaggio delle etichette, delle guerre per bande, degli slogan sono ben rappresentate dalla figura di Silvio Berlusconi. Ed è giusto desiderare la sua caduta politica. Ma sarebbe delittuoso tacere che l’ultimo Premier di questo Paese è anche il suo specchio, lo specchio del vuoto progettuale che mina le basi della nostra stessa convivenza civile.

Chi oggi gli si oppone gli ha consegnato a suo tempo il Paese. Per le ragioni più svariate. Omissione. Interesse. Calcolo. Opportunismo. Indifferenza. Non vi sono Auditel o indici di ascolto che potranno nascondere o riempire quel vuoto al posto nostro. Al posto della nostra determinazione a farlo, con consapevolezza, spregiudicatezza, ascolto, studio, attenzione, desiderio, apertura, sfilandosi dal gioco al massacro degli opposti dogmatismi che sta facendo della democrazia il palcoscenico di una farsa.

In una delle prossime puntate di questa patetica rappresentazione di dogmi contrapposti tu, Paolo, avrai la parola. Ti chiedo un gesto semplice, scandaloso e normale a un tempo. Io so, per esserti stato a più riprese vicino, i prezzi anche personali che hai pagato per difendere la tua libertà e proteggerti dall’uso distorto del tuo stesso talento. Tu sai che ciascuno paga un prezzo, a volte anche esoso, per lo stesso motivo.

Volente o nolente, ognuno di noi contribuisce a costruire la maschera che indossa o la prigione in cui è (viene) recluso. Attore, cassintegrato, ingegnere, extracomunitario, povero, ricco, tutti indossiamo una maschera. Scelta o imposta. Vi sono momenti però – quando si ha la saggezza e la forza per farlo – in cui violare il tabù e gettare la maschera, come facevano i fool più audaci e per questo dimenticati della Commedia dell’Arte che tu tanto ami, può rappresentare una liberazione, una catarsi.

Ti chiedo di fare questo gesto quando parteciperai a Vieni via con me. Di rinunciare al ruolo che la retorica demente di maggioranza e opposizione ti assegna. Deponi la corona di capopopolo ai piedi di chi te la offre, adulandoti. Sii anarchico, come sempre. Evadi dalla prigione in cui ti vogliono rinchiudere. Sfascia il giocattolo con la poesia, continua a reinventare la lingua, magari con quell’Ubu che stavamo reinventando insieme e che alcuni tuoi “carcerieri” ti hanno impedito di fare.

Semplicemente, sii te stesso, Paolo. Sorprendici ancora. Rinuncia a strumentali investiture politiche e spiazza chi si consola, ingenuo o patetico, contando share e minuti pro o contro le fazioni opposte. Da giullare irriducibile e unico, rompi l’incantesimo in cui siamo segregati, mostragli quanto di loro stessi c’è nel nemico, nell’oggetto del loro odio, e viceversa.

Ti lascio con la frase che per anni, prima che morisse, mi ha aiutato ad accettare che mia madre se ne andasse e che, lo capisco ora, ha un senso sostituendo a lei le radici, la lingua, il nostro presente e il Paese il cui futuro è scritto nel suo passato.

Io sono solo uno scrittore, le parole sono la mia scorta e la mia prigione:

Quando una patria muore non c’è consolazione.
Chi le è figlio sa per una volta ancora, l’ultima,
che in quel momento lo rigenera.
E questa è la meraviglia.
Giampaolo Spinato

> Pubblicato su Satisfiction (novembre 2010)

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