Angeli sospesi e bambini dementi

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Chi ha paura dell’arte, delle sue intuizioni e dei suoi sentimenti

Giovedì 6 maggio 2004, in piazza XXIV Maggio, a Milano, alle 21.15, alla fine di una giornata di polemiche e accuse a cui partecipano anche politici e amministratori pubblici, nel tentativo di “liberare” tre bambini pupazzi appesi ai rami di un albero, facendo così scempio dell’opera di Maurizio Cattelan, un uomo precipita e finisce all’ospedale, suscitando enorme clamore e diventando, per qualcuno, un eroe.

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Per liberare i “bambini impiccati”, per togliersi un peso, per fermare il suo batticuore, un uomo, con la complicità di un’intera città e delle sue strumentali, elettoralistiche e televisive contrapposizioni travestite da estetiche, ha agito quel sentimento. Non ha saputo sentirlo. Non è riuscito a ascoltarlo, e magari esprimerlo, raccontarlo, trasformarlo, in un modo che non fosse aggressivo, violento e, per contrappasso, autolesivo.

Per liberare i “bambini impiccati”, senza nemmeno chiedersi se questa non fosse la sua proiezione della visione che lo turbava, se non fosse la sua intima, rancorosa idealistica patetica religiosa o colpevole interpretazione di un’immagine, li ha impiccati davvero, rimuovendo, “uccidendo”, la parte di sé precipitata, da quella visione, nella rabbia, nella commozione, nel lutto. La parte, quella parte del sé invisibile, che proprio da quella rabbia, forse, avrebbe saputo inventare gesti più efficaci per scongiurare nella realtà ciò di cui aveva paura, ciò che aborriva.

Ha fatto quel passo demente che separa la civiltà dalla barbarie.
Ha rotto con le sue proprie mani la cosa che era all’origine del suo turbamento.
Ha sfregiato, fra l’insipiente allegria e la chiassosa polemica di piccoli uomini, un’opera d’arte.

Per liberare i “bambini impiccati”, credendo spasmodicamente in questa idiozia rassicurante, ha rotto il frutto, bello o brutto, poetico o becero, allegorico o crudo – non è questo il punto – di un’intuizione. Ha colpito, spaccato, distrutto, un’icona.

Paura di un’immagine.
Di una trasfigurazione.
Dell’arte, al di là del suo credito accademico.

E’ il gesto più limpido, coerente e rappresentativo di una civiltà spaventosamente fragile, impaurita. Incapace di reggere (leggere?) addirittura le proprie emozioni, per quanto si è andata comodamente adagiando sulla legge dei rapporti di forza, dei numeri. Un uomo espropriato. Incapace di reggere (ascoltare, leggere, interpretare) le sue rabbie e le sue frustrazioni. Una civiltà per cui desideri e bisogni esistono solo per essere soddisfatti, come vuole il Mercato. Come ci vuole il Mercato: bambini dementi, angeli impiccati alla propria idiozia, sopraffatti da un destino funereo in cui l’incognita (ma anche la vita, quella vera, non riducibile, delle relazioni e delle emozioni) è sostituita dalla prevedibilità delle statistiche, dei numeri, del benessere, in una prospettiva travisata e irreale dell’esperienza. L’unica rimasta. L’unica a cui ci aggrappiamo, incapaci di sognare (e di gestire, saper leggere i sogni) come siamo, illudendoci di arginare l’imponderabile, controllare l’incontrollabile con la frigida contabilità del potere d’acquisto.

Solo l’idelogia (e il fanatismo, il terrorismo, la dittatura, l’assolutismo e il dogmatismo) può concepire e giustificare un gesto del genere. Solo l’ideologia e la vergogna spudorata del suo irrimediabile, rovinoso e posticcio fallimento travestito di grandezze meschinità o incantamenti può trarre motivo di ironia da una scelta che sta sul ciglio di un baratro. Solo uomini stupidi possono avere paura di “angeli sospesi”, di oggetti, di manichini, di simboli e rappresentazioni.

Chi ha gridato allo scandalo è colpevole. Chi ha gridato allo scandalo e riveste cariche amministrative o ruoli politici e pubblici lo è più degli altri – e dovrà essere ricordato nel segreto del voto – perché, più degli altri, costoro hanno il dovere di non essere demagogici, di non giocare con sentimenti e emozioni.

Dite ai politici di trovare argomenti appropriati.
Dite ai politici di non usare, non giudicare un’opera d’arte.
Dite ai politici di non dire mai niente sul bello o sul brutto, ma che facciano solo tutto il possibile per coltivarlo, per non censurarlo o nasconderlo, anche quando gli è scomodo, perché tutti possano farlo, vederlo, gustarlo, esperirlo.

E’ l’intuizione dell’arte, allegra dolorosa odiosa o scabrosa che sia, che nutre di progettualità e di futuro la vita. Fuori di lì c’è soltanto una civiltà illividita, defunta. La cadaverica faccia della città catafalco, della Milano sarcofago in cui questo fatto, ultimo atto della sua decennale e infinita autopsia, è accaduto.

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