Sul numero di novembre di LINUS:
Anche l’economia è un racconto
Non si può barare con le storie, perché poi i conti non tornano
Ma la nostra banca non doveva essere “differente”? Non “girava intorno a noi” o almeno intorno a chi aveva un po’ di “zucca”? A quali storie abbiamo creduto? Che storie siamo disposti a leggere e scrivere? A chi abbiamo delegato la scelta delle storie a cui credere? Anche l’economia è un racconto. I racconti, le storie, non sono, come forse ci hanno voluto far credere, il passatempo per un’élite di buontemponi o di scansafatiche iniziati. Sono il luogo in cui permanentemente viviamo. Ognuno di noi non sarebbe in grado nemmeno di concepirsi fuori dalla storia, dal racconto. Per il solo fatto di esistere, ciascuno è, nel contempo, protagonista e fruitore della propria storia.
Ed è proprio questa caratteristica ontologica, studiata e compresa fino in fondo dalla logica del capitale, ad avere suggerito da vent’anni a questa parte le più audaci e vincenti fra le strategie di vendita e di marketing che hanno trasformato definitivamente l’economia in un racconto. La “globalizzazione” e lo scontro frontale che, dalla nascita di istituzioni come il Wto (World Trade Organisation, Organizzazione mondiale del commercio), hanno animato a ogni G8 la scena occidentale, sono lo sfondo di un racconto in cui la favola bella e progressiva del modello legato a principi di “benessere” e “crescita” ha spasmodicamente cercato di uscire dall’asfissia di una imminente saturazione.
Per trasferire i propri dogmi, i propri collaudati meccanismi in spazi e continenti (Africa, Asia, Cina in particolare) che con la loro quota di verginità si rendevano disponibili alla penetrazione del sistema capitalistico occidentale. In vista di una crisi economica di proporzioni epocali (alcuni teorici dell’economia sospettano che l’attentato alle Torri Gemelle sia in realtà stato organizzato proprio allo scopo di evitare quella crisi), un attento maquillage concepito da esperti di storytelling ha trasferito sui nostri schermi e nelle nostre menti un Capitale pronto a riprodursi spalancandosi a “nuovi mercati”.
Questa storia, infarcita spesso con calibrati dosaggi di commozione, è arrivata a raccontarci persino di un Occidente filantropo che, tendendo la mano al resto del mondo, ne guarisce piaghe e ferite, rendendolo finalmente partecipe del proprio benessere. Poco importa se la vigilanza di chi non si fidava ha prodotto un potente boato di disapprovazione (movimenti, petizioni, libri, film, etc.). Presto gli attenti autori della favola bella hanno ingaggiato i contestatori per trasfigurare le parti del racconto venute non tanto bene. Dunque, si sono corretti gli errori. Non più sfruttamento dei bambini. Non più minorenni che costruiscono i palloni con cui giocano calciatori miliardari. Non più o, almeno, non più visibili(1).
Tratteggiando nuovi particolari, scrivendo nuovi capitoli, sistemando qua e là ambientazioni e personaggi. Ingurgitando persino le istanze di chi lo contesta, il Capitale si mette sul petto la spilletta “No logo”. Con buona pace di chi lo combatte, egli stesso mette di volta in volta in discussione la propria identità e la propria storia. Incassando i risultati che cerca con i travestimenti e i racconti più convincenti. Eccoci dunque tutti seduti in platea, pochi anni fa, nei primi duemila, a seguire il film della new economy. Storia fantasmagorica, che unisce l’appeal misterioso del “nuovo” col nulla indifferenziato che, alludendo sostanzialmente all’impalpabilità dell’alta tecnologia, contiene.
Bolle di sapone si alzano nelle sale di contrattazione delle Borse mondiali. Uno dopo l’altro, come avvisi sinistri, molti di quei fragili giganti della cosiddetta “new economy” si sfaldano. Ma perché mai dovremmo smettere di credere alle menzogne che ci raccontiamo. Specie quando queste storie-menzogne leniscono il nostro bisogno di rassicurazione, l’ansia per un futuro che non siamo più in grado di rappresentarci e dunque di progettare. Ma le storie, checché ne pensiamo, hanno fibra concreta. Esattamente come i nostri pensieri e la nostra immaginazione. Scegliere di barare con una storia vuol dire mettersi in seria difficoltà.
Le storie, come sta dimostrando l’allarme mondiale per il domino negativo che investe l’economia planetaria, si vendicano. Ci chiedono il conto. E, se è vero che la competenza esoterica dei numeri e del sapere economico non basta più a governare l’economia, è anche vero che tutti, con o senza Excel o pallottolieri, saremo costretti, per affrontare le questioni salienti, a ridomandarci come e che cosa siamo disposti a leggere e scrivere. Perché, in senso lato, in fondo non facciamo nient’altro che questo, vivendo. Non c’è niente da fare. Se i conti non tornano, tocca rimettere mano al racconto e rivedere le favole che vogliamo davvero condividere.
(1) Su questo curioso rovesciamento ma anche sull’uso della narrazione come nuova frontiera del marketing e della comunicazione si veda il documentato saggio di Christian Salmon, Storytelling – la fabbrica delle storie, Fazi.
(Articolo illustrato da Danilo Maramotti)
LINUS NOVEMBRE 2008
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