Al centro dell’Italia

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09.04.04
Diario
Al centro dell’Italia – Massimo Onofri

Riflessioni narrative sul caso Moro

Almeno una verità, sulla recente storia d’Italia, risulterà evidente: il caso Moro è stato la fine e l’inizio di tutto. La fine della prima repubblica: per come quel sangue è poi inesorabilmente ricaduto su tutti gli attori dell’atroce vicenda, assecondando un’amarissima e facile profezia dello statista assassinato, a cominciare da tutti i suoi compagni di partito e di governo, nessuno escluso. L’inizio d’una nuova e allucinante stagione politica che non risponde ancora ai fasti d’una seconda repubblica: ma che ha di sicuro messo a repentaglio i presupposti costituzionali dello Stato. Mai, come in quest’ultimo anno, il cinema e la letteratura nazionali si sono misurati con questa verità e con quei dolorosissimi fatti. Anche Giampaolo Spinato ha voluto consegnarci, sull’affaire, il suo ambizioso contributo. S’intitola Amici e nemici, un romanzo che lo scrittore, facendo perno sui cinquantacinque giorni intercorrenti tra il rapimento e l’esecuzione, si prova ad articolare su quattro distinti livelli: la prigionia di Moro; quella, parallela, d’un membro del commando brigatista, tale «Ingegner Mario Leto» (questo il nome di battaglia), ferito e catturato da un terrorista nero, presente al momento del rapimento, che ha avuto rapporti coi servizi segreti e che ora lo tiene in ostaggio; la tragica ed eterna pantomima del Potere, quella che qui si tiene in Parlamento (nel pasoliniano Palazzo), e, più ancora, nelle «Stanze del segreto»; infine, la vita quotidiana di ragazzi che stanno terminando la scuola superiore.
Voglio essere chiaro: se il libro funzionasse a tutti i livelli, nella perfetta sincronia degli ingranaggi, sarebbe un capolavoro. Si tratta, invece, solo d’un buon romanzo: che s’avvale delle risorse consuete del miglior Spinato, lo Spinato che ha saputo restituirci, prima in Il cuore rovesciato (1999), poi in Di qua e di là dal cielo (2001), il mondo capovolto dell’infanzia e dell’adolescenza, dal quale scrutare e giudicare, con inedita intelligenza, quello sempre misterioso e sempre colpevole degli adulti. Perché questo è il punto: il giovane Telonius che lascia i suoi compagni di militanza, i ciellini, perché non ne vuol più sapere di chiese, il Telonius che s’innamora d’Irene, la più femminista delle sue compagne di scuola, è lo stesso ragazzo (cresciuto, certo) che, in Di qua e di là dal cielo, abbandonava il seminario per andare incontro alla vita, e che, bambino, cavalcava i venturosi anni Sessanta, come abbiamo letto nel notevole Cuore rovesciato. Parimenti, il «Comandante Leto», tenuto prigioniero dall’eversore fascista, altri non è che il «Seba» di Di qua e di là dal cielo, l’amico carissimo di Telonius, ma di quattro anni più anziano, quello che, dopo la maturità, fugge dal seminario per entrare in clandestinità come terrorista. Certo, nella terza puntata di questo libro forse infinito, Spinato rinuncia a quella tenera e screziata lingua d’invenzione delle prime due: ma si tratta d’una scelta all’altezza del raggelato e inquietante tempo che si trova ora a raccontare.
Abbiamo avuto la fortuna di bere in ben altre cantine, magari quella di Sciascia di Todo modo e dell’Affaire, per accontentarci del Moro di Spinato e della sua drammaturgia del Potere. Sarà anche per questo che le pagine su Telonius e Irene ci risultano tanto più vive. Prendete quelle intitolate Alle prime armi, in cui i due personaggi entrano in scena: Irene che lo invita a toccarle il sesso, lo sbigottimento di Telonius di fronte a quell’invito e a quegli odori così nuovi. Sono la prova d’uno scrittore nato per la realtà dei sensi e dei sentimenti, ma costretto dall’irrealtà dei tempi, a confrontarsi con la cupa metafisica della Politica e della Ragion di Stato.

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